Published On: 20 Novembre 2016Categories: Articoli, Diritto Penale, Marco Conti

Tra diffamazione e stalking: la sentenza della Cassazione

Non si può parlare di atti persecutori, pur a fronte di frequenti articoli pubblicati da un giornale e post su facebook, tutti dall’evidente contenuto offensivo”.

Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza depositata il 14 novembre 2016, in merito ad un procedimento esperito nei confronti di un giornalista al quale veniva contestato il reato di cui all’art. 612 bis c.p., che rubrica “atti persecutori”, per aver pubblicato numerosi articoli giornalistici e post su facebook dal tenore chiaramente diffamatorio aventi come destinatario un collega.

Anteriormente alla decisione della Suprema Corte, si era espresso nel medesimo senso anche il Tribunale del Riesame che aveva annullato il provvedimento di rigetto della revoca della misura cautelare applicata al giornalista per il reato di atti persecutori, in quanto la mera reiterazione del reato di diffamazione a mezzo stampa non è sufficiente ad integrare stalking, ai sensi dell’art. 612 bis c.p., essendo necessario un quid pluris rispetto alle condotte ascritte al giornalista imputato.

Adiva la Corte di Cassazione il Pubblico ministero assumendo, senza articolare in modo espresso specifici vizi di legittimità, l’assoluta non condivisibilità degli argomenti posti dal Tribunale del Riesame a sostegno della propria decisione.

Gli Ermellini rilevando in primis l’inammissibilità del ricorso proposto dal pubblico ministero, in quanto fondato su mere circostanze di fatto, hanno altresì evidenziato la manifesta infondatezza di quanto addotto dal ricorrente.

Ed infatti, affinché la reiterazione di atti diffamatori integrino il reato di “atti persecutori”, così come disciplinati dalla norma incriminatrice e come chiarito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, è necessaria la coesistenza di ulteriori molestie quali, ad esempio, pedinamenti, appostamenti, e numerose altre condotte eterogenee moleste, tra cui l’aggressione fisica.

Per quanto su esposto, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Pubblico Ministero.

Dott. Marco Conti

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Published On: 20 Novembre 2016Categories: Articoli, Diritto Penale, Marco ContiBy

Tra diffamazione e stalking: la sentenza della Cassazione

Non si può parlare di atti persecutori, pur a fronte di frequenti articoli pubblicati da un giornale e post su facebook, tutti dall’evidente contenuto offensivo”.

Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza depositata il 14 novembre 2016, in merito ad un procedimento esperito nei confronti di un giornalista al quale veniva contestato il reato di cui all’art. 612 bis c.p., che rubrica “atti persecutori”, per aver pubblicato numerosi articoli giornalistici e post su facebook dal tenore chiaramente diffamatorio aventi come destinatario un collega.

Anteriormente alla decisione della Suprema Corte, si era espresso nel medesimo senso anche il Tribunale del Riesame che aveva annullato il provvedimento di rigetto della revoca della misura cautelare applicata al giornalista per il reato di atti persecutori, in quanto la mera reiterazione del reato di diffamazione a mezzo stampa non è sufficiente ad integrare stalking, ai sensi dell’art. 612 bis c.p., essendo necessario un quid pluris rispetto alle condotte ascritte al giornalista imputato.

Adiva la Corte di Cassazione il Pubblico ministero assumendo, senza articolare in modo espresso specifici vizi di legittimità, l’assoluta non condivisibilità degli argomenti posti dal Tribunale del Riesame a sostegno della propria decisione.

Gli Ermellini rilevando in primis l’inammissibilità del ricorso proposto dal pubblico ministero, in quanto fondato su mere circostanze di fatto, hanno altresì evidenziato la manifesta infondatezza di quanto addotto dal ricorrente.

Ed infatti, affinché la reiterazione di atti diffamatori integrino il reato di “atti persecutori”, così come disciplinati dalla norma incriminatrice e come chiarito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, è necessaria la coesistenza di ulteriori molestie quali, ad esempio, pedinamenti, appostamenti, e numerose altre condotte eterogenee moleste, tra cui l’aggressione fisica.

Per quanto su esposto, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Pubblico Ministero.

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