Straniero integrato con permesso di soggiorno scaduto: è ammessa l'espulsione?
Con l’ordinanza n. 9794/2018 la Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ha rigettato il ricorso proposto dal Ministero dell’Interno avverso la sentenza del Giudice di Pace di Taranto che aveva accolto l’opposizione proposta contro il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Taranto.
Nel caso di specie un cittadino albanese risiedeva in Italia dal 2003 avendo sempre dato ampia prova di integrazione nel paese attraverso la frequenza a corsi di studio e lo svolgimento di varie attività lavorative; inoltre vive con la propria compagna, anch’essa albanese, e le sue due figlie.
Tale situazione ha convinto il Giudice di Pace ad accogliere l’opposizione proposta dal cittadino albanese, ritenendo che le necessità pubblicistiche di tutela del flusso migratorio dovessero cedere di fronte al diritto del singolo di non essere allontanato dallo Stato ospitante.
Il Ministero dell’Interno ha pertanto proposto ricorso per Cassazione avverso la suddetta pronuncia in quanto, tra i vari motivi, ha sostenuto che le valutazioni relative all’ordine pubblico, all’integrazione sociale e alle possibilità di lavoro dello straniero attengono esclusivamente al procedimento di concessione o rinnovo del titolo, e non al procedimento all’espulsione.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha sottolineato che come stabilito dall’art. 13, comma 2-bis, D.Lgs. 286/1998 “nell’adottare il provvedimento di espulsione … nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto… si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”.
La norma tende pertanto a salvaguardare il diritto alla vita familiare tutte le volte che esso non contrasti con prioritari interessi pubblici, e in funzione di tale diritto l’espulsione dev’essere evitata ancorché sarebbe consentita sul mero presupposto della posizione irregolare dello straniero (Cass. n. 18608 del 03/09/2014).
Dott. Adriano Izzo
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Nel caso di specie un cittadino albanese risiedeva in Italia dal 2003 avendo sempre dato ampia prova di integrazione nel paese attraverso la frequenza a corsi di studio e lo svolgimento di varie attività lavorative; inoltre vive con la propria compagna, anch’essa albanese, e le sue due figlie.
Tale situazione ha convinto il Giudice di Pace ad accogliere l’opposizione proposta dal cittadino albanese, ritenendo che le necessità pubblicistiche di tutela del flusso migratorio dovessero cedere di fronte al diritto del singolo di non essere allontanato dallo Stato ospitante.
Il Ministero dell’Interno ha pertanto proposto ricorso per Cassazione avverso la suddetta pronuncia in quanto, tra i vari motivi, ha sostenuto che le valutazioni relative all’ordine pubblico, all’integrazione sociale e alle possibilità di lavoro dello straniero attengono esclusivamente al procedimento di concessione o rinnovo del titolo, e non al procedimento all’espulsione.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha sottolineato che come stabilito dall’art. 13, comma 2-bis, D.Lgs. 286/1998 “nell’adottare il provvedimento di espulsione … nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto… si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”.
La norma tende pertanto a salvaguardare il diritto alla vita familiare tutte le volte che esso non contrasti con prioritari interessi pubblici, e in funzione di tale diritto l’espulsione dev’essere evitata ancorché sarebbe consentita sul mero presupposto della posizione irregolare dello straniero (Cass. n. 18608 del 03/09/2014).
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