Sparlare dei capi su WhatsApp non è reato
Con la sentenza n. 11665/2022, la Cassazione ha enunciato il principio secondo cui denigrare il proprio capo su WhatsApp non configura un’ipotesi di reato.
La vicenda processuale nasce dal ricorso al Tribunale di Udine, proposto da un dipendente della Italpol s.p.a., al fine di far dichiarare l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dall’impresa a seguito di contestazione disciplinare relativa a tre episodi:
- l’avere, in una conversazione via chat con un ex collega, criticato e denigrato i responsabili dell’impresa;
- non aver denunciato l’aggressione con lesioni subita da una guardia giurata durante il servizio e
- l’avere omesso per cinque mesi di segnalare alla Questura di Udine i turni di servizio del personale, come imposto da precise direttive.
Il Tribunale di Udine, in funzione di Giudice del lavoro, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa e, risolto il rapporto di lavoro, ha condannato la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a venti mensilità, salvo poi successivamente – giudicando in sede di opposizione – annullare il licenziamento per difetto di giusta causa e condannare la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro ed a corrispondergli un’indennità risarcitoria.
La società datrice di lavoro impugnava la decisione di primo grado con reclamo che veniva parzialmente accolto dalla Corte di Appello di Trieste la quale, ritenendo che la conversazione avvenuta tra il dipendente e l’ex collega non avesse alcun rilievo disciplinare, dichiarava risolto il rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a venti mensilità della retribuzione mensile, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo.
Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore sulla base di due motivi: con il primo motivo veniva dedotta la violazione e falsa applicazione della normativa contrattuale applicata al rapporto di lavoro e, con il secondo motivo, il ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione della legge in quanto la Corte d’Appello avrebbe erroneamente applicato la tutela indennitaria senza considerare che il fatto contestato integrava una delle fattispecie punite con la semplice sanzione conservativa.
Parallelamente proponeva ricorso incidentale anche la Italpol s.p.a., lamentando il fatto che la Corte di merito avesse erroneamente ritenuto priva di rilievo disciplinare la condotta oggetto della prima lettera di contestazione, senza tenere conto dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e ai principi generali dell’ordinamento e della gravità delle espressioni scambiate nelle conversazioni da valutare in relazione alla portata oggettiva delle stesse, all’elemento intenzionale ed al ruolo apicale del dipendente (comandante delle guardie giurate).
In merito ai giudizi poco lusinghieri espressi dal dipendente nei confronti dei vertici aziendali, la Suprema Corte ha ritenuto del tutto prive di rilevanza le contestate dichiarazioni, in quanto le stesse erano state pronunciate
«nell’ambito di una conversazione extralavorativa e del tutto privata senza alcun contatto diretto con altri colleghi di lavoro, con la conseguenza che anche sotto il profilo soggettivo le stesse erano circoscritte ad un ambito totalmente estraneo all’ambiente di lavoro».
Continuano gli Ermellini sostenendo che
«né’ si può sostenere che, per il mezzo con il quale erano state veicolate (una conversazione privata su WhatsApp, applicazione che consente lo scambio di messaggi e chiamate telefoniche) la condotta era in sé potenzialmente lesiva. Premesso che non integra una condotta in sé idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto l’aver espresso in una conversazione privata e fra privati, giudizi e valutazioni, seppure di contenuto discutibile, ove, come nel caso in esame, sia stato escluso in fatto che tali dichiarazioni fossero anche solo ipoteticamente finalizzate ad una ulteriore diffusione, resta irrilevante lo strumento di comunicazione utilizzato»
Pertanto, all’esito dell’udienza di discussione, i Giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso incidentale proposto dalla società datrice di lavoro e, viceversa, accolto il ricorso proposto dal dipendente, rinviando così alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, la quale dovrà valutare la possibilità (caldeggiata dalla stessa Cassazione) di sanzionare il lavoratore, lasciandolo però al lavoro.
Sparlare dei capi su WhatsApp non è reato
Con la sentenza n. 11665/2022, la Cassazione ha enunciato il principio secondo cui denigrare il proprio capo su WhatsApp non configura un’ipotesi di reato.
La vicenda processuale nasce dal ricorso al Tribunale di Udine, proposto da un dipendente della Italpol s.p.a., al fine di far dichiarare l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dall’impresa a seguito di contestazione disciplinare relativa a tre episodi:
- l’avere, in una conversazione via chat con un ex collega, criticato e denigrato i responsabili dell’impresa;
- non aver denunciato l’aggressione con lesioni subita da una guardia giurata durante il servizio e
- l’avere omesso per cinque mesi di segnalare alla Questura di Udine i turni di servizio del personale, come imposto da precise direttive.
Il Tribunale di Udine, in funzione di Giudice del lavoro, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa e, risolto il rapporto di lavoro, ha condannato la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a venti mensilità, salvo poi successivamente – giudicando in sede di opposizione – annullare il licenziamento per difetto di giusta causa e condannare la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro ed a corrispondergli un’indennità risarcitoria.
La società datrice di lavoro impugnava la decisione di primo grado con reclamo che veniva parzialmente accolto dalla Corte di Appello di Trieste la quale, ritenendo che la conversazione avvenuta tra il dipendente e l’ex collega non avesse alcun rilievo disciplinare, dichiarava risolto il rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a venti mensilità della retribuzione mensile, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo.
Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore sulla base di due motivi: con il primo motivo veniva dedotta la violazione e falsa applicazione della normativa contrattuale applicata al rapporto di lavoro e, con il secondo motivo, il ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione della legge in quanto la Corte d’Appello avrebbe erroneamente applicato la tutela indennitaria senza considerare che il fatto contestato integrava una delle fattispecie punite con la semplice sanzione conservativa.
Parallelamente proponeva ricorso incidentale anche la Italpol s.p.a., lamentando il fatto che la Corte di merito avesse erroneamente ritenuto priva di rilievo disciplinare la condotta oggetto della prima lettera di contestazione, senza tenere conto dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e ai principi generali dell’ordinamento e della gravità delle espressioni scambiate nelle conversazioni da valutare in relazione alla portata oggettiva delle stesse, all’elemento intenzionale ed al ruolo apicale del dipendente (comandante delle guardie giurate).
In merito ai giudizi poco lusinghieri espressi dal dipendente nei confronti dei vertici aziendali, la Suprema Corte ha ritenuto del tutto prive di rilevanza le contestate dichiarazioni, in quanto le stesse erano state pronunciate
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