Nuovo “codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”. La definizione normativa della “crisi”.
Il legislatore italiano almeno sino ad oggi non ha mai introdotto nell’ordinamento concorsuale una definizione dello stato di “crisi” dell’impresa.
Il silenzio del legislatore sul punto ha sempre suscitato notevoli perplessità e ciò in quanto – così come lo stato di insolvenza è sempre stato il presupposto per la dichiarazione di fallimento – lo stato di crisi è sempre stato il presupposto oggettivo necessario per il ricorso dell’imprenditore agli strumenti di composizione concordata della crisi d’impresa finalizzati ad impedire per l’appunto il fallimento, come il concordato preventivo di cui agli artt. 160 e segg. della Legge Fallimentare e gli “accordi di ristrutturazione dei debiti” di cui all’art. 182 bis della medesima legge.
La mancanza di una definizione normativa e precisa della “crisi” d’impresa e dei suoi elementi identificativi ha quindi suscitato diversi tipi di problematiche, tra le quali meritano particolare attenzione le seguenti:
- gli imprenditori non sono stati in grado di individuare con precisione il momento “iniziale” della crisi d’impresa e quindi il momento in cui avrebbero dovuto ricorrere ai predetti rimedi diretti a scongiurare il rischio di un fallimento.
- La notevole incertezza che ha contraddistinto l’operato dei professionisti (commercialisti, avvocati, ragionieri ecc..) incaricati dall’imprenditore di collocare temporalmente, di volta in volta, l’inizio della crisi d’impresa.
- La tendenza di molti imprenditori ad identificare erroneamente l’inizio della crisi d’impresa con il ben più grave status di “insolvenza” e, quindi, a rendere completamente inutile il ricorso agli strumenti di composizione concordata della crisi d’impresa, attivando tali rimedi tardivamente e soprattutto in un momento in cui la crisi d’impresa era divenuta una vera e propria “insolvenza” ed era imminente la dichiarazione di fallimento.
L’errore commesso dall’imprenditore era tuttavia comprensibile in quanto, nell’assoluta carenza di indicazioni circa gli elementi identificativi della crisi aziendale, lo stato d’insolvenza era l’unico concretamente percepibile dall’imprenditore ed anche dai terzi estranei all’impresa, in virtù del chiaro disposto dell’art. 5 della Legge Fallimentare e della copiosa casistica rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità in ordine ai c.d. “fatti esteriori” dell’insolvenza.
La dottrina aziendalistica tentò allora di individuare i tratti distintivi della “crisi” aziendale ponendo in rilievo la natura dinamica del fenomeno, considerandolo come un processo patologico che – una volta generato da vari elementi (interni o esterni all’azienda) – era destinato col tempo a peggiorare progressivamente sino a portare l’impresa in uno stato d’insolvenza.
Tuttavia nemmeno una tale impostazione è valsa a risolvere in concreto i dubbi e le numerose perplessità generati dalla mancata definizione normativa della “crisi” e che, come detto, riguardavano per l’appunto la necessità di individuare l’incipit e quindi il “momento” inziale della crisi d’impresa, al fine di consentire all’imprenditore di ricorrere tempestivamente ai rimedi all’uopo approntati dall’ordinamento concorsuale (oltre che di responsabilizzare gli organi amministrativi e di controllo in ordine all’adozione delle misure necessarie per fronteggiare sul nascere la crisi d’impresa).
Nella disciplina aziendalistica, al fine di consentire all’imprenditore di percepire per tempo l’insorgere della crisi d’impresa, vennero allora individuate e suggerite tre distinte metodologie:
- l’esame esterno della crisi d’impresa, consistente nel ricavare lo stato di crisi dall’esame di comportamenti dell’imprenditore destinati a produrre i loro effetti “all’esterno” dell’impresa e quindi nella sfera giuridica di terzi soggetti, come ad esempio la natura sempre più grave degli inadempimenti posti in essere dall’imprenditore (il quale generalmente inizia a non pagare i suoi normali fornitori, poi inizia a non versare nemmeno le ritenute previdenziali, fiscali ed erariali e, infine, pone in essere un sistematico inadempimento delle obbligazioni nei confronti dei c.d. “fornitori” strategici).
- L’esame interno – consuntivo, svolto interamente all’interno dell’impresa e consistente nel ricavare l’insorgere della crisi aziendale attraverso il raffronto tra i saldi contabili del consuntivo d’impresa ed il saldo dei consuntivi riguardanti le precedenti gestioni.
- L’esame interno – previsionale il quale, a differenza dell’esame interno – consuntivo che focalizza l’attenzione sui risultati delle passate gestioni, consiste invece nel tentativo di ricavare l’incipit di una crisi aziendale attraverso l’esame, sempre all’interno dell’impesa, dei programmi strategici predisposti dall’imprenditore e quindi attraverso una prognosi circa la futura idoneità di tali programmi a generare flussi di cassa sufficienti per il regolare adempimento delle obbligazioni attuali o programmate.
Infatti, nel caso in cui tale diagnosi dovesse condurre a risultati negativi, vi sarebbe la probabilità di una “futura insolvenza” dell’impresa e, quindi, la concreta sussistenza di uno stato di crisi inteso per l’appunto come “probabilità di futura insolvenza”.
Sulla scorta di tutto quanto sopra esposto, e quindi in considerazione della necessità di introdurre quanto prima nell’ordinamento concorsuale una definizione normativa e soprattutto “operativa” della crisi di impresa (che consentisse quindi all’imprenditore e ai professionisti l’esatta individuazione del suo “momento iniziale”), con la legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017 (contenente la “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza”) fu conferito al Governo il compito, nell’elaborare il nuovo codice della crisi d’impresa, di “introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza di cui all’art. 5 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267” (cfr. art. 2 lettera c) della legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017).
Il legislatore pertanto, nell’indicare i criteri ai quali il Governo si sarebbe dovuto attenere nell’elaborare il nuovo codice e soprattutto nel definire la c.d. “crisi d’impresa”, ha preferito dare prevalenza al criterio c.d. “interno – previsionale” di approccio della scienza aziendalistica alla crisi d’impresa.
Infatti al Governo è stato affidato il compito di introdurre “una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza” e questo rende evidente la preferenza del legislatore per criterio di approccio c.d.“interno -previsionale” alla crisi di impresa.
In conclusione mette conto rilevare che, conformemente ai criteri dettati dalla predetta legge delega n. 155 del 19 ottobre 1017, il 12 gennaio 2019 è stato emanato dal Presidente della Repubblica il D.L. delegato n. 14 /2019, successivamente pubblicato il 14 febbraio 2019 sulla Gazzetta Ufficiale e contenente il “CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA” le cui norme, almeno quelle relative agli istituti della crisi d’impresa e dell’insolvenza, alla stregua di quanto previsto dall’art. 389 del medesimo codice, sono destinate ad entrare in vigore una volta decorsi 18 mesi dalla data di pubblicazione del decreto.
Orbene, proprio esaminando il testo del nuovo CODICE, ci si imbatte sin da subito nel chiaro ed eloquente disposto dell’art. 2 il quale dispone testualmente che “Ai fini del presente codice si intende per: a) “crisi” lo stato di difficoltà economico – finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
Si tratta della tanto agognata definizione “operativa” della c.d. “crisi” d’impresa e, quindi, di quel concetto cardine dell’intero ordinamento concorsuale italiano che, tuttavia, almeno fino ad oggi è sempre rimasto completamente privo di qualunque definizione normativa da parte del legislatore.
E’ dunque auspicabile che d’ora in poi, chiarito il presupposto oggettivo per l’accesso agli strumenti di composizione concordata della crisi d’impresa, si riesca finalmente ad ottenere un utilizzo di tali strumenti maggiormente efficiente e, soprattutto, in linea con la finalità per la quale sono stati introdotti nel nostro ordinamento.
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Il silenzio del legislatore sul punto ha sempre suscitato notevoli perplessità e ciò in quanto – così come lo stato di insolvenza è sempre stato il presupposto per la dichiarazione di fallimento – lo stato di crisi è sempre stato il presupposto oggettivo necessario per il ricorso dell’imprenditore agli strumenti di composizione concordata della crisi d’impresa finalizzati ad impedire per l’appunto il fallimento, come il concordato preventivo di cui agli artt. 160 e segg. della Legge Fallimentare e gli “accordi di ristrutturazione dei debiti” di cui all’art. 182 bis della medesima legge.
La mancanza di una definizione normativa e precisa della “crisi” d’impresa e dei suoi elementi identificativi ha quindi suscitato diversi tipi di problematiche, tra le quali meritano particolare attenzione le seguenti:
- gli imprenditori non sono stati in grado di individuare con precisione il momento “iniziale” della crisi d’impresa e quindi il momento in cui avrebbero dovuto ricorrere ai predetti rimedi diretti a scongiurare il rischio di un fallimento.
- La notevole incertezza che ha contraddistinto l’operato dei professionisti (commercialisti, avvocati, ragionieri ecc..) incaricati dall’imprenditore di collocare temporalmente, di volta in volta, l’inizio della crisi d’impresa.
- La tendenza di molti imprenditori ad identificare erroneamente l’inizio della crisi d’impresa con il ben più grave status di “insolvenza” e, quindi, a rendere completamente inutile il ricorso agli strumenti di composizione concordata della crisi d’impresa, attivando tali rimedi tardivamente e soprattutto in un momento in cui la crisi d’impresa era divenuta una vera e propria “insolvenza” ed era imminente la dichiarazione di fallimento.
L’errore commesso dall’imprenditore era tuttavia comprensibile in quanto, nell’assoluta carenza di indicazioni circa gli elementi identificativi della crisi aziendale, lo stato d’insolvenza era l’unico concretamente percepibile dall’imprenditore ed anche dai terzi estranei all’impresa, in virtù del chiaro disposto dell’art. 5 della Legge Fallimentare e della copiosa casistica rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità in ordine ai c.d. “fatti esteriori” dell’insolvenza.
La dottrina aziendalistica tentò allora di individuare i tratti distintivi della “crisi” aziendale ponendo in rilievo la natura dinamica del fenomeno, considerandolo come un processo patologico che – una volta generato da vari elementi (interni o esterni all’azienda) – era destinato col tempo a peggiorare progressivamente sino a portare l’impresa in uno stato d’insolvenza.
Tuttavia nemmeno una tale impostazione è valsa a risolvere in concreto i dubbi e le numerose perplessità generati dalla mancata definizione normativa della “crisi” e che, come detto, riguardavano per l’appunto la necessità di individuare l’incipit e quindi il “momento” inziale della crisi d’impresa, al fine di consentire all’imprenditore di ricorrere tempestivamente ai rimedi all’uopo approntati dall’ordinamento concorsuale (oltre che di responsabilizzare gli organi amministrativi e di controllo in ordine all’adozione delle misure necessarie per fronteggiare sul nascere la crisi d’impresa).
Nella disciplina aziendalistica, al fine di consentire all’imprenditore di percepire per tempo l’insorgere della crisi d’impresa, vennero allora individuate e suggerite tre distinte metodologie:
- l’esame esterno della crisi d’impresa, consistente nel ricavare lo stato di crisi dall’esame di comportamenti dell’imprenditore destinati a produrre i loro effetti “all’esterno” dell’impresa e quindi nella sfera giuridica di terzi soggetti, come ad esempio la natura sempre più grave degli inadempimenti posti in essere dall’imprenditore (il quale generalmente inizia a non pagare i suoi normali fornitori, poi inizia a non versare nemmeno le ritenute previdenziali, fiscali ed erariali e, infine, pone in essere un sistematico inadempimento delle obbligazioni nei confronti dei c.d. “fornitori” strategici).
- L’esame interno – consuntivo, svolto interamente all’interno dell’impresa e consistente nel ricavare l’insorgere della crisi aziendale attraverso il raffronto tra i saldi contabili del consuntivo d’impresa ed il saldo dei consuntivi riguardanti le precedenti gestioni.
- L’esame interno – previsionale il quale, a differenza dell’esame interno – consuntivo che focalizza l’attenzione sui risultati delle passate gestioni, consiste invece nel tentativo di ricavare l’incipit di una crisi aziendale attraverso l’esame, sempre all’interno dell’impesa, dei programmi strategici predisposti dall’imprenditore e quindi attraverso una prognosi circa la futura idoneità di tali programmi a generare flussi di cassa sufficienti per il regolare adempimento delle obbligazioni attuali o programmate.
Infatti, nel caso in cui tale diagnosi dovesse condurre a risultati negativi, vi sarebbe la probabilità di una “futura insolvenza” dell’impresa e, quindi, la concreta sussistenza di uno stato di crisi inteso per l’appunto come “probabilità di futura insolvenza”.
Sulla scorta di tutto quanto sopra esposto, e quindi in considerazione della necessità di introdurre quanto prima nell’ordinamento concorsuale una definizione normativa e soprattutto “operativa” della crisi di impresa (che consentisse quindi all’imprenditore e ai professionisti l’esatta individuazione del suo “momento iniziale”), con la legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017 (contenente la “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza”) fu conferito al Governo il compito, nell’elaborare il nuovo codice della crisi d’impresa, di “introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza di cui all’art. 5 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267” (cfr. art. 2 lettera c) della legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017).
Il legislatore pertanto, nell’indicare i criteri ai quali il Governo si sarebbe dovuto attenere nell’elaborare il nuovo codice e soprattutto nel definire la c.d. “crisi d’impresa”, ha preferito dare prevalenza al criterio c.d. “interno – previsionale” di approccio della scienza aziendalistica alla crisi d’impresa.
Infatti al Governo è stato affidato il compito di introdurre “una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza” e questo rende evidente la preferenza del legislatore per criterio di approccio c.d.“interno -previsionale” alla crisi di impresa.
In conclusione mette conto rilevare che, conformemente ai criteri dettati dalla predetta legge delega n. 155 del 19 ottobre 1017, il 12 gennaio 2019 è stato emanato dal Presidente della Repubblica il D.L. delegato n. 14 /2019, successivamente pubblicato il 14 febbraio 2019 sulla Gazzetta Ufficiale e contenente il “CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA” le cui norme, almeno quelle relative agli istituti della crisi d’impresa e dell’insolvenza, alla stregua di quanto previsto dall’art. 389 del medesimo codice, sono destinate ad entrare in vigore una volta decorsi 18 mesi dalla data di pubblicazione del decreto.
Orbene, proprio esaminando il testo del nuovo CODICE, ci si imbatte sin da subito nel chiaro ed eloquente disposto dell’art. 2 il quale dispone testualmente che “Ai fini del presente codice si intende per: a) “crisi” lo stato di difficoltà economico – finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
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