Published On: 21 Gennaio 2024Categories: Claudia Bazzucchi, Diritto civile

Diritto all'oblio: Google vince una causa contro top manager

Il diritto all’oblio, nella sua accezione più ampia, è una modalità attraverso la quale si esplica il nostro diritto all’identità personale, inteso come una particolare forma di garanzia connaturata al diritto alla riservatezza. Si chiede di obliare ciò che riteniamo non debba essere più parte della nostra identità personale condivisa in rete.

Il diritto alla cancellazione (“diritto all’oblio”), è la possibilità per ogni cittadino di pretendere la cancellazione dal web dei propri dati, intesi come nome, cognome e ogni riferimento ai fatti di cronaca che lo hanno visto coinvolto ma che non sono più attuali e, per i quali, è venuto meno l’interesse pubblico (Cass. 26/06/2013, n. 16111; Cass. 24/06/2016, n. 13161). Dunque, non è rivolto a cancellare il passato, ma a proteggere il presente, e preservare il riserbo e la pace che il soggetto abbia ritrovato.

La normativa di riferimento è quella del Regolamento generale sulla protezione dei dati, anche noto come GDPR (General Data Protection Regulation), approvato con Regolamento UE 2016/679 del Parlamento e del Consiglio Europeo. Nello specifico, l’art. 17, Cap. III, Sez. 3 del citato regolamento, si occupa proprio del diritto alla cancellazione, quindi del diritto all’oblio. Nello specifico, l’articolo individua, dapprima, una serie di motivi a seguito dei quali l’interessato può richiedere al titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano, tuttavia però, esclude dalla cancellazione “il trattamento per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione”.

google diritto oblio

Parimenti, l’art. 85 di cui al Regolamento citato, stabilisce un equilibrio delle contrapposte esigenze in gioco: la protezione dei dati personali e il diritto alla libertà di espressione e di informazione.  In tal senso, il comma 2 dell’art. 85 (Reg. UE 2016/679), ai fini del trattamento effettuato a scopi giornalistici, stabilisce che gli Stati membri prevedono esenzioni o deroghe – rispetto ai diritti dell’interessato – “qualora siano necessarie per conciliare il diritto alla protezione dei dati personali e la libertà di espressione o di informazione”.

Questo accade, principalmente, quando l’informazione ha ad oggetto fatti di notevole interesse pubblico che prevale sul diritto individuale all’oblio.  A tal proposito è importante menzionare che, anche nel “Codice di deontologia attività giornalistica” (1998), relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, si distingue cosa sia o meno di interesse pubblico. Fondamentale in tal senso è l’art. 6 del Codice, che parla appunto di essenzialità dell’informazione chiarendo che una notizia di rilevante interesse pubblico o sociale, non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione divulgata, anche in maniera dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti.

Quando si esercita il diritto all’oblio, l’azienda titolare del giornale online o di qualsiasi portale web che ha pubblicato, oltre ai fatti anche i nomi dei soggetti coinvolti, è tenuta, teoricamente, a cancellare i dati e/o deindicizzare in modo tale che i link all’articolo non siano più presenti su Google o sugli altri motori di ricerca. In termini più profani, i motori di ricerca non dovranno più “pescare” notizie obsolete proponendo, tra i risultati di ricerca, link ed articoli che siano di più interesse pubblico in quel dato momento storico.

Preliminarmente e per comprendere appieno la questione, è opportuno dare una definizione di deindicizzazione che consiste nella rimozione dei contenuti e di informazioni, dall’indice dei motori di ricerca (come appunto Google). Questa procedura non prevede la rimozione del contenuto dalla rete ma limita la visibilità all’interno dei risultati dei motori di ricerca. In sostanza, si può dire che il contenuto è presente in rete ma non è accessibile tramite la ricerca.

È ormai prassi stabilire in due anni il tempo dopo il quale è possibile richiedere la rimozione di un contenuto lesivo dell’immagine di una persona ma si tratta di un termine che non sempre viene rispettato perché, come pocanzi rappresentato, il diritto all’oblio è subordinato al perdurare della mancanza dell’interesse pubblico. Quando quest’ultimo non prevale, la deindicizzazione degli URL relativi all’identità della persona, diventa una soluzione adeguata a proteggere l’identità della persona. Viceversa, può accadere che a distanza di tempo sorga un interesse pubblico alla riproposizione del fatto medesimo.

Tuttavia, una volta che la collettività ha acquisito il fatto pubblico, non vi è più interesse perché ormai non vi è più notizia. Riproporre l’accadimento, infatti, sarebbe inutile, poiché non vi sarebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare; non solo inutile per la collettività, ma anche dannoso per i protagonisti (in negativo) della vicenda. 

Di notevole importanza è la vicenda che ha coinvolto Alessandro Picardi, un noto top manager italiano, dirigente di importanti strutture nel settore delle telecomunicazioni come: Alitalia, Tim, Wind e Rai. Attualmente ricopre il ruolo di Presidente di Nexting ed è membro del Consiglio di Amministrazione di Acea dal 18 aprile 2023.

La questione giuridica di rilevante importanza è che Picardi, appellandosi al diritto all’oblio, aveva chiesto a Google di deindicizzare alcuni articoli – da lui ritenuti diffamatori – che erano stati pubblicati da una testata giornalistica. Ne è nato un contenzioso sul quale la Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 36021/2023, ed ha concordato con il giudice di primo grado, il quale ha compiuto un bilanciamento cruciale.

Ovverosia, per bilanciare il diritto della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale, va assicurata la permanenza dell’articolo di stampa relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria nell’archivio informatico del quotidiano.

Dunque, il giudice di merito ha bilanciato la tutela dell’oblio invocata dal manager e il diritto della collettività all’informazione, ritenendo perciò il secondo più importante. Tuttavia, il magistrato ha parimenti tenuto conto della notorietà del ricorrente, considerata tale da giustificare la permanenza dell’interesse collettivo a conoscere i fatti citati negli articoli oggetto del contenzioso.

In altri termini, l’interesse collettivo a sapere, malgrado il tempo trascorso, un determinato fatto commesso da una persona nota prevale sul diritto della persona nota a sparire dal web. Il diritto all’oblio, infatti, non è solo una questione di “tempo”, poiché persiste l’attuale interesse pubblico alla conoscenza di queste informazioni dato che il Picardi è un top manager italiano. Motivo per il quale il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

Dott.ssa Claudia Bazzucchi

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Published On: 21 Gennaio 2024Categories: Claudia Bazzucchi, Diritto civileBy

Diritto all'oblio: Google vince una causa contro top manager

Il diritto all’oblio, nella sua accezione più ampia, è una modalità attraverso la quale si esplica il nostro diritto all’identità personale, inteso come una particolare forma di garanzia connaturata al diritto alla riservatezza. Si chiede di obliare ciò che riteniamo non debba essere più parte della nostra identità personale condivisa in rete.

Il diritto alla cancellazione (“diritto all’oblio”), è la possibilità per ogni cittadino di pretendere la cancellazione dal web dei propri dati, intesi come nome, cognome e ogni riferimento ai fatti di cronaca che lo hanno visto coinvolto ma che non sono più attuali e, per i quali, è venuto meno l’interesse pubblico (Cass. 26/06/2013, n. 16111; Cass. 24/06/2016, n. 13161). Dunque, non è rivolto a cancellare il passato, ma a proteggere il presente, e preservare il riserbo e la pace che il soggetto abbia ritrovato.

La normativa di riferimento è quella del Regolamento generale sulla protezione dei dati, anche noto come GDPR (General Data Protection Regulation), approvato con Regolamento UE 2016/679 del Parlamento e del Consiglio Europeo. Nello specifico, l’art. 17, Cap. III, Sez. 3 del citato regolamento, si occupa proprio del diritto alla cancellazione, quindi del diritto all’oblio. Nello specifico, l’articolo individua, dapprima, una serie di motivi a seguito dei quali l’interessato può richiedere al titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano, tuttavia però, esclude dalla cancellazione “il trattamento per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione”.

google diritto oblio

Parimenti, l’art. 85 di cui al Regolamento citato, stabilisce un equilibrio delle contrapposte esigenze in gioco: la protezione dei dati personali e il diritto alla libertà di espressione e di informazione.  In tal senso, il comma 2 dell’art. 85 (Reg. UE 2016/679), ai fini del trattamento effettuato a scopi giornalistici, stabilisce che gli Stati membri prevedono esenzioni o deroghe – rispetto ai diritti dell’interessato – “qualora siano necessarie per conciliare il diritto alla protezione dei dati personali e la libertà di espressione o di informazione”.

Questo accade, principalmente, quando l’informazione ha ad oggetto fatti di notevole interesse pubblico che prevale sul diritto individuale all’oblio.  A tal proposito è importante menzionare che, anche nel “Codice di deontologia attività giornalistica” (1998), relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, si distingue cosa sia o meno di interesse pubblico. Fondamentale in tal senso è l’art. 6 del Codice, che parla appunto di essenzialità dell’informazione chiarendo che una notizia di rilevante interesse pubblico o sociale, non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione divulgata, anche in maniera dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti.

Quando si esercita il diritto all’oblio, l’azienda titolare del giornale online o di qualsiasi portale web che ha pubblicato, oltre ai fatti anche i nomi dei soggetti coinvolti, è tenuta, teoricamente, a cancellare i dati e/o deindicizzare in modo tale che i link all’articolo non siano più presenti su Google o sugli altri motori di ricerca. In termini più profani, i motori di ricerca non dovranno più “pescare” notizie obsolete proponendo, tra i risultati di ricerca, link ed articoli che siano di più interesse pubblico in quel dato momento storico.

Preliminarmente e per comprendere appieno la questione, è opportuno dare una definizione di deindicizzazione che consiste nella rimozione dei contenuti e di informazioni, dall’indice dei motori di ricerca (come appunto Google). Questa procedura non prevede la rimozione del contenuto dalla rete ma limita la visibilità all’interno dei risultati dei motori di ricerca. In sostanza, si può dire che il contenuto è presente in rete ma non è accessibile tramite la ricerca.

È ormai prassi stabilire in due anni il tempo dopo il quale è possibile richiedere la rimozione di un contenuto lesivo dell’immagine di una persona ma si tratta di un termine che non sempre viene rispettato perché, come pocanzi rappresentato, il diritto all’oblio è subordinato al perdurare della mancanza dell’interesse pubblico. Quando quest’ultimo non prevale, la deindicizzazione degli URL relativi all’identità della persona, diventa una soluzione adeguata a proteggere l’identità della persona. Viceversa, può accadere che a distanza di tempo sorga un interesse pubblico alla riproposizione del fatto medesimo.

Tuttavia, una volta che la collettività ha acquisito il fatto pubblico, non vi è più interesse perché ormai non vi è più notizia. Riproporre l’accadimento, infatti, sarebbe inutile, poiché non vi sarebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare; non solo inutile per la collettività, ma anche dannoso per i protagonisti (in negativo) della vicenda. 

Di notevole importanza è la vicenda che ha coinvolto Alessandro Picardi, un noto top manager italiano, dirigente di importanti strutture nel settore delle telecomunicazioni come: Alitalia, Tim, Wind e Rai. Attualmente ricopre il ruolo di Presidente di Nexting ed è membro del Consiglio di Amministrazione di Acea dal 18 aprile 2023.

La questione giuridica di rilevante importanza è che Picardi, appellandosi al diritto all’oblio, aveva chiesto a Google di deindicizzare alcuni articoli – da lui ritenuti diffamatori – che erano stati pubblicati da una testata giornalistica. Ne è nato un contenzioso sul quale la Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 36021/2023, ed ha concordato con il giudice di primo grado, il quale ha compiuto un bilanciamento cruciale.

Ovverosia, per bilanciare il diritto della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale, va assicurata la permanenza dell’articolo di stampa relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria nell’archivio informatico del quotidiano.

Dunque, il giudice di merito ha bilanciato la tutela dell’oblio invocata dal manager e il diritto della collettività all’informazione, ritenendo perciò il secondo più importante. Tuttavia, il magistrato ha parimenti tenuto conto della notorietà del ricorrente, considerata tale da giustificare la permanenza dell’interesse collettivo a conoscere i fatti citati negli articoli oggetto del contenzioso.

In altri termini, l’interesse collettivo a sapere, malgrado il tempo trascorso, un determinato fatto commesso da una persona nota prevale sul diritto della persona nota a sparire dal web. Il diritto all’oblio, infatti, non è solo una questione di “tempo”, poiché persiste l’attuale interesse pubblico alla conoscenza di queste informazioni dato che il Picardi è un top manager italiano. Motivo per il quale il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

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