CORTE DI CASSAZIONE N. 25574/2020: sanzioni disciplinari per gli avvocati
La sentenza della Corte di Cassazione in esame riguarda le sanzioni disciplinari per gli avvocati che violano le disposizioni del Codice deontologico forense.
La professione forense deve fondarsi, infatti, sui principi posti dall’articolo 3 della legge n. 247 del 2012, quali l’autonomia, l’indipendenza, la lealtà, la probità e soprattutto diligenza e competenza. Le norme di comportamento cui deve adeguarsi l’avvocato sono poste dal Codice deontologico emanato dal Consiglio Nazionale Forense. Attualmente il codice in vigore risale al 2014, ma per quanto riguarda il caso di specie si fa riferimento al codice previgente, risalente al 1997 ma modificato più volte, in quanto la condotta è stata posta in essere nel periodo antecedente al 2014.
Il dovere di diligenza viene considerato come la più importante obbligazione etica, riconosciuta dall’articolo 8 del previdente codice deontologico e dall’articolo 12 del codice attuale. È necessario far riferimento al criterio generale della diligenza del pater familias, sulla base del parametro posto dall’articolo 1176 del codice civile, ma commisurandolo alla natura dell’attività esercitata. Con quest’ultima si intende l’attività del professionista medio.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1286 del 1998, aveva ricompreso nel dovere di diligenza tutte le operazioni giornaliere volte al buon esito della lite. L’avvocato dovrà, difatti, agire tutelando il suo assistito e cercando di ottenere il miglior risultato per esso.
Il secondo dovere che viene ad essere violato nella sentenza in esame è il dovere di competenza, sancito dall’articolo 12 del C.D. previgente e 14 del codice in vigore, il quale consiste nell’obbligo di non accettare incarichi che vadano oltre le proprie competenze, in modo da poter garantire la qualità delle proprie prestazioni professionali. Il principio si intende violato qualora il professionista forense svolga negligentemente il proprio mandato, compiendo attività inadeguate o consigliando in modo errato il proprio cliente.
Nel momento in cui si riscontri una violazione dei predetti doveri l’avvocato incorrerà in sanzione disciplinare.
La sentenza n. 25574 del 2020 riguarda un avvocato che aveva fatto intraprendere delle azioni legali non necessarie al suo cliente, per cui era stato sanzionato nel 2013 dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Sondrio con la censura per la violazione degli articoli 8 e 12 del previgente C.D. succitati ed esplicati.
Il professionista, tuttavia, era stato scagionato per la violazione degli obblighi di cui agli articoli 36 e 42 dello stesso testo normativo, riguardanti il dovere di difendere gli interessi dell’assistito nel migliore dei modi, dunque non consigliando azioni gravose, e il dovere di restituire la documentazione relativa al mandato qualora il cliente ne faccia richiesta.
Anche il Consiglio Nazionale forense, chiamato a pronunciarsi nel 2019, aveva confermato la decisione. L’avvocato, tuttavia, ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, invocando 3 motivi. Innanzitutto, sosteneva l’avvenuta prescrizione delle violazioni, in secondo luogo deduceva falsa applicazione del nuovo codice deontologico, non potendosi applicare essendo sopravvenuto ai fatti contestati, infine invocava un vizio motivazionale ai sensi dell’articolo 360, n. 5, del codice di procedura civile, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, non avendo considerato le circostanze concrete.
La Suprema Corte ha censurato tutti i motivi ritenendoli inammissibili. Il primo in quanto la sanzione era stata irrogata nel 2013, a fronte delle condotte iniziate nel 2006 ma protrattesi sino al 2012. Il secondo motivo, invece, viene censurato in quanto basato su un inciso che non aveva avuto conseguenze, essendosi ritenute non sussistenti le violazioni di cui agli articoli 36 e 42 del C.D. L’ultimo motivo, infine, viene ritenuto inammissibile poiché riguardante elementi non rinvenibili dalla sentenza impugnata e dunque non conoscibili alla Corte stessa.
Ciò posto, dunque, gli Ermellini hanno confermato la sussistenza della responsabilità dell’avvocato in riferimento alla violazione degli obblighi di diligenza e di competenza.
Carolina Ceccarelli
Fonte foto: database freepik
CORTE DI CASSAZIONE N. 25574/2020: sanzioni disciplinari per gli avvocati
La sentenza della Corte di Cassazione in esame riguarda le sanzioni disciplinari per gli avvocati che violano le disposizioni del Codice deontologico forense.
La professione forense deve fondarsi, infatti, sui principi posti dall’articolo 3 della legge n. 247 del 2012, quali l’autonomia, l’indipendenza, la lealtà, la probità e soprattutto diligenza e competenza. Le norme di comportamento cui deve adeguarsi l’avvocato sono poste dal Codice deontologico emanato dal Consiglio Nazionale Forense. Attualmente il codice in vigore risale al 2014, ma per quanto riguarda il caso di specie si fa riferimento al codice previgente, risalente al 1997 ma modificato più volte, in quanto la condotta è stata posta in essere nel periodo antecedente al 2014.
Il dovere di diligenza viene considerato come la più importante obbligazione etica, riconosciuta dall’articolo 8 del previdente codice deontologico e dall’articolo 12 del codice attuale. È necessario far riferimento al criterio generale della diligenza del pater familias, sulla base del parametro posto dall’articolo 1176 del codice civile, ma commisurandolo alla natura dell’attività esercitata. Con quest’ultima si intende l’attività del professionista medio.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1286 del 1998, aveva ricompreso nel dovere di diligenza tutte le operazioni giornaliere volte al buon esito della lite. L’avvocato dovrà, difatti, agire tutelando il suo assistito e cercando di ottenere il miglior risultato per esso.
Il secondo dovere che viene ad essere violato nella sentenza in esame è il dovere di competenza, sancito dall’articolo 12 del C.D. previgente e 14 del codice in vigore, il quale consiste nell’obbligo di non accettare incarichi che vadano oltre le proprie competenze, in modo da poter garantire la qualità delle proprie prestazioni professionali. Il principio si intende violato qualora il professionista forense svolga negligentemente il proprio mandato, compiendo attività inadeguate o consigliando in modo errato il proprio cliente.
Nel momento in cui si riscontri una violazione dei predetti doveri l’avvocato incorrerà in sanzione disciplinare.
La sentenza n. 25574 del 2020 riguarda un avvocato che aveva fatto intraprendere delle azioni legali non necessarie al suo cliente, per cui era stato sanzionato nel 2013 dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Sondrio con la censura per la violazione degli articoli 8 e 12 del previgente C.D. succitati ed esplicati.
Il professionista, tuttavia, era stato scagionato per la violazione degli obblighi di cui agli articoli 36 e 42 dello stesso testo normativo, riguardanti il dovere di difendere gli interessi dell’assistito nel migliore dei modi, dunque non consigliando azioni gravose, e il dovere di restituire la documentazione relativa al mandato qualora il cliente ne faccia richiesta.
Anche il Consiglio Nazionale forense, chiamato a pronunciarsi nel 2019, aveva confermato la decisione. L’avvocato, tuttavia, ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, invocando 3 motivi. Innanzitutto, sosteneva l’avvenuta prescrizione delle violazioni, in secondo luogo deduceva falsa applicazione del nuovo codice deontologico, non potendosi applicare essendo sopravvenuto ai fatti contestati, infine invocava un vizio motivazionale ai sensi dell’articolo 360, n. 5, del codice di procedura civile, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, non avendo considerato le circostanze concrete.
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