Published On: 18 Giugno 2017Categories: Articoli, Diritto Penale, Marco Conti

Caso Riina, la Cassazione nega il differimento della pena

La Suprema Corte, con la sentenza n. 27766 depositata il 5 giugno 2017, si è pronunciata in ordine al ricorso presentato dalla difesa di Salvatore Riina, indiscusso capo di “Cosa Nostra”, avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna con la quale si rigettavano le richieste formulate nell’interesse del predetto e volte ad ottenere il differimento dell’esecuzione della pena e, in subordine, l’esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47 ter, comma 1 ter 26 luglio 1975, n.354.

Preliminarmente occorre rilevare che l’istituto del differimento dell’esecuzione della pena prevede due ipotesi:

  • Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 146 c.p.
  • Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147 c.p.

Ebbene il Tribunale di sorveglianza di Bologna escludeva entrambe le ipotesi poc’anzi indicate in primis perché, dalle risultanze delle relazioni sanitarie concernenti lo stato di salute di Salvatore Riina, non sarebbe emerso che qualunque tipo di cura potesse risultare inefficace (requisito di cui al n.3 dell’art. 146 c.p.); in secundis, in merito all’ipotesi di un differimento facoltativo dell’esecuzione della pena, ex art.147, comma 1, n. 2), cod. pen., il Tribunale sottolineava come le patologie sofferte dall’istante detenuto potessero essere trattate anche nella struttura carceraria stante la stazionarietà delle stesse.

Nell’ordinanza impugnata veniva inoltre posto in rilievo l’assoluta pericolosità sociale del detenuto il quale, benchè affetto da diverse patologie, sarebbe stato ancora in grado, si legge nel provvedimento, di presiedere al suo ruolo di capo assoluto della nota organizzazione criminale.

Avverso il suddetto provvedimento adiva la Suprema Corte la difesa di Salvatore Riina dolendosi dell’errata applicazione delle norme di cui all’artt. 147 c.p. e 47-ter comma 1 ter, legge n.354 del 1975, nonché della contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui: a) confermava il grave stato di infermità fisica del ricorrente e al contempo escludeva la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto de quo; b) affermava la compatibilità dello stato di detenzione del Riina con le sue gravi condizioni di salute e dall’altro sottolineava le carenze strutturali dell’istituto carcerario ove il predetto è recluso.

La Corte di Cassazione riteneva di pregio le doglianze eccepite dall’istante detenuto rilevando soprattutto l’effettiva illogicità e carenza motivazionale dell’ordinanza impugnata.

Difatti, a tal proposito, gli Ermellini evidenziavano come il provvedimento emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna effettivamente incorresse in una esplicita incongruenza sottolineando la criticità dello stato fisico del ricorrente (requisito indefettibile ai fini dell’applicazione dell’istituto dell’esecuzione differita facoltativa della pena) e dall’altra escludeva la sussistenza dei presupposti necessari a i fini dell’applicabilità dell’art. 147 comma n.2 c.p.

Vieppiù, la Suprema Corte richiamava, a sostegno del proprio decisum, un principio ormai consolidato nella giurisprudenza del medesimo Consesso secondo il quale “lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”

In conclusione gli Ermellini precisavano come il provvedimento impugnato risultasse orfano di un’adeguata motivazione soprattutto in ordine all’aspetto dell’asserita compatibilità delle condizioni fisiche del ricorrente con la detenzione carceraria, motivazione necessaria se si volge lo sguardo al principio di umanità che anima la nostra Carta costituzionale e pertanto coglieva l’occasione di ribadire il principio di diritto secondo il quale “esiste «un diritto a morire dignitosamente che

[…] deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale, il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, deve adeguatamente motivare».

Per i motivi su esposti la Suprema Corte annullava l’ordinanza impugnata e rinviava per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Bologna

Dott. Marco Conti

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Published On: 18 Giugno 2017Categories: Articoli, Diritto Penale, Marco ContiBy

Caso Riina, la Cassazione nega il differimento della pena

La Suprema Corte, con la sentenza n. 27766 depositata il 5 giugno 2017, si è pronunciata in ordine al ricorso presentato dalla difesa di Salvatore Riina, indiscusso capo di “Cosa Nostra”, avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna con la quale si rigettavano le richieste formulate nell’interesse del predetto e volte ad ottenere il differimento dell’esecuzione della pena e, in subordine, l’esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47 ter, comma 1 ter 26 luglio 1975, n.354.

Preliminarmente occorre rilevare che l’istituto del differimento dell’esecuzione della pena prevede due ipotesi:

  • Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 146 c.p.
  • Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147 c.p.

Ebbene il Tribunale di sorveglianza di Bologna escludeva entrambe le ipotesi poc’anzi indicate in primis perché, dalle risultanze delle relazioni sanitarie concernenti lo stato di salute di Salvatore Riina, non sarebbe emerso che qualunque tipo di cura potesse risultare inefficace (requisito di cui al n.3 dell’art. 146 c.p.); in secundis, in merito all’ipotesi di un differimento facoltativo dell’esecuzione della pena, ex art.147, comma 1, n. 2), cod. pen., il Tribunale sottolineava come le patologie sofferte dall’istante detenuto potessero essere trattate anche nella struttura carceraria stante la stazionarietà delle stesse.

Nell’ordinanza impugnata veniva inoltre posto in rilievo l’assoluta pericolosità sociale del detenuto il quale, benchè affetto da diverse patologie, sarebbe stato ancora in grado, si legge nel provvedimento, di presiedere al suo ruolo di capo assoluto della nota organizzazione criminale.

Avverso il suddetto provvedimento adiva la Suprema Corte la difesa di Salvatore Riina dolendosi dell’errata applicazione delle norme di cui all’artt. 147 c.p. e 47-ter comma 1 ter, legge n.354 del 1975, nonché della contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui: a) confermava il grave stato di infermità fisica del ricorrente e al contempo escludeva la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto de quo; b) affermava la compatibilità dello stato di detenzione del Riina con le sue gravi condizioni di salute e dall’altro sottolineava le carenze strutturali dell’istituto carcerario ove il predetto è recluso.

La Corte di Cassazione riteneva di pregio le doglianze eccepite dall’istante detenuto rilevando soprattutto l’effettiva illogicità e carenza motivazionale dell’ordinanza impugnata.

Difatti, a tal proposito, gli Ermellini evidenziavano come il provvedimento emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna effettivamente incorresse in una esplicita incongruenza sottolineando la criticità dello stato fisico del ricorrente (requisito indefettibile ai fini dell’applicazione dell’istituto dell’esecuzione differita facoltativa della pena) e dall’altra escludeva la sussistenza dei presupposti necessari a i fini dell’applicabilità dell’art. 147 comma n.2 c.p.

Vieppiù, la Suprema Corte richiamava, a sostegno del proprio decisum, un principio ormai consolidato nella giurisprudenza del medesimo Consesso secondo il quale “lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”

In conclusione gli Ermellini precisavano come il provvedimento impugnato risultasse orfano di un’adeguata motivazione soprattutto in ordine all’aspetto dell’asserita compatibilità delle condizioni fisiche del ricorrente con la detenzione carceraria, motivazione necessaria se si volge lo sguardo al principio di umanità che anima la nostra Carta costituzionale e pertanto coglieva l’occasione di ribadire il principio di diritto secondo il quale “esiste «un diritto a morire dignitosamente che

[…] deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale, il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, deve adeguatamente motivare».

Per i motivi su esposti la Suprema Corte annullava l’ordinanza impugnata e rinviava per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Bologna

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