La bancarotta riparata
Per esaminare l’istituto della c.d. “Bancarotta riparata” occorre partire dalla considerazione del delitto di bancarotta fraudolenta distrattiva quale “reato di pericolo” e che, quindi, si consuma nel momento in viene posta in essere una condotta idonea a mettere in pericolo la garanzia patrimoniale dei creditori dell’impresa, rappresentata per l’appunto dal patrimonio dell’impresa stessa.
Tra le molteplici sentenze che qualificano il delitto di bancarotta come reato “di pericolo” meritano particolare attenzione due pronunce in cui tale principio si trova affermato espressamente, vale a dire la sentenza della Cassazione Penale n, 44933 del 26 settembre 2011, in cui è stato affermato il principio secondo cui “Il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo ed è pertanto irrilevante che al momento della consumazione l’agente non avesse consapevolezza dello stato d’insolvenza dell’impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato”, nonché la successiva sentenza della Cassazione Penale n. 11633 dell’8 febbraio 2012 secondo cui “il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo e non è dunque necessario, per la sua sussistenza, la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudizio ai creditori, il quale rileva esclusivamente ai fini dell’eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 219 l. fall.”
Si tratta, quindi, di due pronunzie giurisprudenziali che non attribuiscono rilevanza, ai fini della consumazione del delitto di bancarotta distrattiva prefallimentare, all’effettivo manifestarsi del pericolo con l’accertamento del dissesto dell’impresa e quindi con la dichiarazione di fallimento dell’impresa.
Orbene, proprio ad un tale riguardo, un arresto giurisprudenziale si è avuto con la successiva sentenza della Corte di Cassazione penale n. 6408 del 22 ottobre 2014.
Infatti tale sentenza, attribuendo invece rilevanza all’accertamento del dissesto e alla declaratoria di fallimento, ha introdotto l’istituto della c.d. “Bancarotta riparata” e ha considerato quindi non punibile la condotta di colui che, pur avendo posto in essere un atto depauperativo del patrimonio aziendale e idoneo a mettere in pericolo il bene tutelato dalla norma incriminatrice del delitto di bancarotta (vale dire la garanzia patrimoniale dei creditori rappresentata dal patrimonio dell’impresa), successivamente si attivi per la reintegrazione del patrimonio dell’impresa prima che dell’insorgenza della situazione di dissesto e quindi della dichiarazione di fallimento.
In modo particolare con la sentenza in commento è stato affermato il principio secondo cui: «non integra fatto punibile come bancarotta per distrazione la condotta ancorché fraudolenta, la cui portata pregiudizievole risulti annullata per effetto di un atto o di un’attività di segno inverso, capace di reintegrare il patrimonio della fallita prima della soglia cronologica costituita dall’apertura della procedura, quantomeno, prima dell’insorgenza della situazione di dissesto produttiva del fallimento»”.
In sostanza, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione sembra spostare in avanti (rispetto al compimento dell’atto depauperativo) il momento della consumazione del reato di bancarotta, facendolo coincidere con la dichiarazione di fallimento ed affermando quindi che il pregiudizio derivante dalla condotta illecita «deve sussistere al momento della dichiarazione giudiziale di fallimento (…) non già al momento della commissione dell’atto antidoveroso».
Infatti, secondo l’impostazione seguita dalla Corte, al momento della dichiarazione di fallimento il pericolo generato dall’atto depauperativo posto in essere raggiunge la sua massima intensità, posto che a decorrere dalla dichiarazione di fallimento il debitore non potrà più porre rimedio all’insolvenza (reintegrando il patrimonio e pagando i creditori) in quanto viene (proprio in conseguenza della dichiarazione di fallimento) privato della disponibilità del suo patrimonio e i creditori, conseguentemente, saranno costretti a presentare domanda di insinuazione del loro credito al passivo fallimentare.
Per tale motivo la Corte di Cassazione, proprio con la sentenza Corte di Cassazione penale n. 6408 del 22 ottobre 2014, ha considerato non punibile l’imprenditore che si attivi per rimuovere le conseguenze dalla propria condotta prima che intervenga la dichiarazione di fallimento e, quindi, divenga definito ed irreparabile il pregiudizio arrecato alla massa dei creditori.
In conclusione la declaratoria di fallimento è stata considerata come il limite temporale entro il quale è possibile per l’autore dell’atto depauperativo del patrimonio aziendale porre rimedio alla propria condotta ed escludere quindi la consumazione del reato.
Si è trattato di uno dei diversi tentativi posti in essere dalla giurisprudenza, negli anni passati, per individuare l’esatto ruolo della dichiarazione di fallimento nel delitto di bancarotta.
Tali tentativi, infine, sono approdati al convincimento della Corte di Cassazione (espresso con la sentenza delle Sezioni Unite n. 22474/2016 del 31 marzo 2016 ed ancora di più con la successiva sentenza della Corte di Cassazione n. 13910 dell’8 febbraio 2017) di considerare la “sentenza dichiarativa di fallimento” come una condizione di punibilità del reato, anche se di recente vi è stata altra pronunzia della Suprema Corte (ovvero la sentenza 17819 del 24 marzo 2017) con la quale anche tale impostazione (dichiarazione di fallimento = condizione estrinseca di punibilità) è stata nuovamente messa in discussione ed è stato conseguentemente riaperto un dibattito ad oggi ancora in corso.
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