Published On: 12 Marzo 2017Categories: Articoli, Diritto del Lavoro, Rosita Sovrani

Antisindacalità dell'azienda e lavoro ininterrotto: la sentenza della Cassazione

Avendo il decreto dichiarato l’antisindacalità del comportamento aziendale obiettivatosi nei tre licenziamenti e disposto conseguentemente la reintegrazione dei lavoratori licenziati, il rapporto di lavoro di questi ultimi doveva considerarsi come non mai interrotto, con conseguenziale obbligo dell’azienda di pagare i contributi relativi al periodo in cui i lavoratori medesimi erano stati solo di fatto estromessi dal loro posto di lavoro”.

Ciò è stato sostenuto dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4899/17.

La Corte d’Appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava dovuti, per tre lavoratori di una s.r.l., sia i contributi che le relative somme aggiunte richiesti dall’Inps, con riferimento al periodo intercorso tra il licenziamento e la loro riammissione in servizio a seguito di decreto ex art. 28 l. 30/1970.

L’azienda proponeva ricorso avverso la decisione della Corte d’Appello di Milano, la quale aveva ritenuto che nel caso de quo il rapporto di lavoro dei tre lavoratori dovesse essere considerato come mai interrotto e che quindi l’azienda fosse obbligata al versamento dei contributi relativi al periodo di estromissione degli stessi dal posto di lavoro.

La Corte di Cassazione già in precedenza aveva affermato che, poiché il recesso era stato causato da motivi antisindacali, risultando quindi, ai sensi dell’art. 4 l. 604/1966, viziato da nullità “la declaratoria d’antisindacalità del comportamento aziendale che vi abbia dato causa, eventualmente ottenuta dal sindacato mediante ricorso allo speciale procedimento ex art. 28 St. lav., reca con sé la declaratoria di validità ed efficacia del rapporto di lavoro, con conseguente applicabilità dei principi sulla mora credendi (Cass. n. 4374 del 1984, la cui impostazione è stata recepita da Cass. S.U. 1916/20129): la pronuncia di reintegra, infatti, non consegue in tale ipotesi dall’applicazione dell’art. 18 St. Lav., che dipende semmai dall’azione individuale del lavoratore, bensì dal principio generale secondo cui gli atti nulli sono insuscettibili di produrre effetti giuridici (Cass. S.U. 1916 del 1992, cit., seguita più recentemente da Cass. n. 9950 del 2005)”.

Viene inoltre ribadito il principio, già ben consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo allo stesso connesso, anche se nascono congiuntamente all’istaurarsi del rapporto lavorativo, sono comunque dal medesimo distinti ed autonomi, con la necessitata conseguenza che l’onere contributivo del datore di lavoro nei confronti dell’istituto previdenziale “sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti, dal momento che l’espressione usata dall’art. 12 l. 153/1969, per indicare la retribuzione imponibile (“tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro…”) va intesa nel senso di “tutto ciò che ha diritto di ricevere”.

Perciò in tutti quei casi in cui il rapporto di lavoro sia in atto, de iure la retribuzione prevista dall’art. 12 l. 153/1969 deve essere considerata come dovuta.

La Corte ha pertanto rigettato il ricorso.

Dott.ssa Rosita Sovrani

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Published On: 12 Marzo 2017Categories: Articoli, Diritto del Lavoro, Rosita SovraniBy

Antisindacalità dell'azienda e lavoro ininterrotto: la sentenza della Cassazione

Avendo il decreto dichiarato l’antisindacalità del comportamento aziendale obiettivatosi nei tre licenziamenti e disposto conseguentemente la reintegrazione dei lavoratori licenziati, il rapporto di lavoro di questi ultimi doveva considerarsi come non mai interrotto, con conseguenziale obbligo dell’azienda di pagare i contributi relativi al periodo in cui i lavoratori medesimi erano stati solo di fatto estromessi dal loro posto di lavoro”.

Ciò è stato sostenuto dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4899/17.

La Corte d’Appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava dovuti, per tre lavoratori di una s.r.l., sia i contributi che le relative somme aggiunte richiesti dall’Inps, con riferimento al periodo intercorso tra il licenziamento e la loro riammissione in servizio a seguito di decreto ex art. 28 l. 30/1970.

L’azienda proponeva ricorso avverso la decisione della Corte d’Appello di Milano, la quale aveva ritenuto che nel caso de quo il rapporto di lavoro dei tre lavoratori dovesse essere considerato come mai interrotto e che quindi l’azienda fosse obbligata al versamento dei contributi relativi al periodo di estromissione degli stessi dal posto di lavoro.

La Corte di Cassazione già in precedenza aveva affermato che, poiché il recesso era stato causato da motivi antisindacali, risultando quindi, ai sensi dell’art. 4 l. 604/1966, viziato da nullità “la declaratoria d’antisindacalità del comportamento aziendale che vi abbia dato causa, eventualmente ottenuta dal sindacato mediante ricorso allo speciale procedimento ex art. 28 St. lav., reca con sé la declaratoria di validità ed efficacia del rapporto di lavoro, con conseguente applicabilità dei principi sulla mora credendi (Cass. n. 4374 del 1984, la cui impostazione è stata recepita da Cass. S.U. 1916/20129): la pronuncia di reintegra, infatti, non consegue in tale ipotesi dall’applicazione dell’art. 18 St. Lav., che dipende semmai dall’azione individuale del lavoratore, bensì dal principio generale secondo cui gli atti nulli sono insuscettibili di produrre effetti giuridici (Cass. S.U. 1916 del 1992, cit., seguita più recentemente da Cass. n. 9950 del 2005)”.

Viene inoltre ribadito il principio, già ben consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo allo stesso connesso, anche se nascono congiuntamente all’istaurarsi del rapporto lavorativo, sono comunque dal medesimo distinti ed autonomi, con la necessitata conseguenza che l’onere contributivo del datore di lavoro nei confronti dell’istituto previdenziale “sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti, dal momento che l’espressione usata dall’art. 12 l. 153/1969, per indicare la retribuzione imponibile (“tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro…”) va intesa nel senso di “tutto ciò che ha diritto di ricevere”.

Perciò in tutti quei casi in cui il rapporto di lavoro sia in atto, de iure la retribuzione prevista dall’art. 12 l. 153/1969 deve essere considerata come dovuta.

La Corte ha pertanto rigettato il ricorso.

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