Published On: 2 Giugno 2019Categories: Articoli, Diritto del Lavoro, Giuseppe Viscomi

Mansioni superiori del lavoratore: come argomentare e provare in giudizio

La sentenza del Giudice del Lavoro di Roma n. 3527 dell’8.4.2019 è degna di nota in questa sede perché rappresenta un exemplum pratico di come debbano essere esplicate le allegazioni argomentative e probatorie del lavoratore che rivendichi lo svolgimento di mansioni superiori agli effetti dei comma 1 e 7 dell’art.2103 c.c.

Il Tribunale Lavoro, come giudice di prime cure, non si preoccupa di richiamare i principi di diritto che costituiscono il substrato di legittimità della propria decisione, e tuttavia la sentenza si presenta come una applicazione corretta di quei principi.

In conformità all’insegnamento della Suprema Corte (ex ceteris, Cass. 21.6.2003 n.8025), dalla sentenza in commento si ricava, in primo luogo, che il lavoratore che agisca in giudizio per far valere diritti attinenti allo svolgimento di mansioni superiori ha l’onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e, in particolare, è tenuto ad indicare quali siano i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di aver concretamente svolto (vedi anche, Tribunale di Firenze, 3.10.2017, Lav. Giur., 2018, 210; Tribunale Roma, Sez. Lav., 27.6.2017 n.6263, Lav. Giur., 2017, 1033).

Più distintamente, la sentenza rappresenta un memorandum concreto su come il ricorso introduttivo del lavoratore debba essere strutturato in materia di riconoscimento delle mansioni superiori, al fine di evitare eccezioni di inammissibilità della domanda attorea, ovverosia seguendo una tripartizione espositiva e argomentativa che anticipi e precorra il giudizio di accertamento che il giudice del merito dovrà poi svolgere in sede decisionale.

La Suprema Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che nel procedimento logico giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non si può prescindere da un accertamento di natura tri-fasica, cioè (1) dall’accertamento in fatto dell’attività lavorativa in concreto svolta, (2) dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e (3) dal raffronto dei risultati di tali due indagini: «la relativa valutazione, deve essere effettuata accertando i contenuti effettivi delle mansioni esercitate confrontandoli con quelli delle declaratorie delle categorie e dei profili professionali introdotte dalla contrattazione collettiva succedutasi nel tempo» (Cass., 8 aprile 2011, n.8084 e Cass. 27.11.2001 n.14806).

In un caso in cui il ricorso introduttivo era privo della terza fase, relativa alle deduzioni comparative tra le mansioni svolte e le declaratorie contigue (del profilo di inquadramento e di quello rivendicato) oggetto delle prime due fasi, la Corte d’Appello di Perugia confermava la sentenza di primo grado di rigetto per inammissibilità del ricorso (Lav. Giur., 2018, 1074).

Avv. Giuseppe Viscomi

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Mansioni superiori del lavoratore: come argomentare e provare in giudizio

La sentenza del Giudice del Lavoro di Roma n. 3527 dell’8.4.2019 è degna di nota in questa sede perché rappresenta un exemplum pratico di come debbano essere esplicate le allegazioni argomentative e probatorie del lavoratore che rivendichi lo svolgimento di mansioni superiori agli effetti dei comma 1 e 7 dell’art.2103 c.c.

Il Tribunale Lavoro, come giudice di prime cure, non si preoccupa di richiamare i principi di diritto che costituiscono il substrato di legittimità della propria decisione, e tuttavia la sentenza si presenta come una applicazione corretta di quei principi.

In conformità all’insegnamento della Suprema Corte (ex ceteris, Cass. 21.6.2003 n.8025), dalla sentenza in commento si ricava, in primo luogo, che il lavoratore che agisca in giudizio per far valere diritti attinenti allo svolgimento di mansioni superiori ha l’onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e, in particolare, è tenuto ad indicare quali siano i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di aver concretamente svolto (vedi anche, Tribunale di Firenze, 3.10.2017, Lav. Giur., 2018, 210; Tribunale Roma, Sez. Lav., 27.6.2017 n.6263, Lav. Giur., 2017, 1033).

Più distintamente, la sentenza rappresenta un memorandum concreto su come il ricorso introduttivo del lavoratore debba essere strutturato in materia di riconoscimento delle mansioni superiori, al fine di evitare eccezioni di inammissibilità della domanda attorea, ovverosia seguendo una tripartizione espositiva e argomentativa che anticipi e precorra il giudizio di accertamento che il giudice del merito dovrà poi svolgere in sede decisionale.

La Suprema Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che nel procedimento logico giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non si può prescindere da un accertamento di natura tri-fasica, cioè (1) dall’accertamento in fatto dell’attività lavorativa in concreto svolta, (2) dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e (3) dal raffronto dei risultati di tali due indagini: «la relativa valutazione, deve essere effettuata accertando i contenuti effettivi delle mansioni esercitate confrontandoli con quelli delle declaratorie delle categorie e dei profili professionali introdotte dalla contrattazione collettiva succedutasi nel tempo» (Cass., 8 aprile 2011, n.8084 e Cass. 27.11.2001 n.14806).

In un caso in cui il ricorso introduttivo era privo della terza fase, relativa alle deduzioni comparative tra le mansioni svolte e le declaratorie contigue (del profilo di inquadramento e di quello rivendicato) oggetto delle prime due fasi, la Corte d’Appello di Perugia confermava la sentenza di primo grado di rigetto per inammissibilità del ricorso (Lav. Giur., 2018, 1074).

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