Crisi d’impresa. I posti di lavoro e possibili effetti negativi della riduzione del “costo del lavoro”.
Vi è stato un momento in cui, nel nostro Paese, nell’affrontare le problematiche connesse con la crisi d’impresa e nell’applicare il diritto concorsuale previsto dalla Legge Fallimentare del 1942 (con le sue procedure all’epoca ispirate dalla necessità di tutelare il ceto creditorio e al contempo di soddisfare l’interesse dello Stato a punire l’imprenditore insolvenze), si è dovuto tenere conto di molteplici altre esigenze parimenti importanti e meritevoli di tutela.
Questo momento storico coincise con l’emanazione, nel 1948, della Costituzione della Repubblica Italiana e con l’affermarsi delle conseguenti garanzie costituzionali, in primis il diritto al lavoro.
In generale può dirsi che i soggetti titolari di quegli stessi interessi costituzionalmente protetti si organizzarono in appositi organismi, in grado di sottoporre i loro interessi all’attenzione del legislatore per l’adozione degli opportuni provvedimenti legislativi di tutela.
Conseguentemente si venne a generare un quadro normativo in cui, se da un lato il codice civile adottato nel 1942 disponeva all’art. 2086 che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”, dall’altro la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 impose alla liberà di iniziativa economica dell’imprenditore il limite del naturale rispetto di altri diritti parimenti fondamentali e da tutelare in ogni modo, primo fra tutti il “diritto al lavoro”.
Proprio la Carta Costituzionale, infatti, se da un lato ha previsto che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (cfr. art. 41 della Costituzione della Repubblica Italiana), dall’altro ha sancito che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto” (cfr. art. 4 della Costituzione della Repubblica Italiana).
Per quanto concerne il “diritto al lavoro” riconosciuto dalla Carta Costituzionale si giunse inoltre, nel 1970, all’emanazione della Legge 20 maggio 1970, n. 300, ovvero dello Statuto dei Lavoratori.
Ne discende che, oggi, il governo della crisi d’impresa richiede necessariamente la massima tutela dei rapporti di lavoro dell’impresa in crisi.
Nel caso di dichiarazione di fallimento vale la regola secondo la quale non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro il fallimento dell’imprenditore (art. 2119 c.c.).
Tuttavia, visto che nella maggior parte dei casi con il fallimento cessa l’attività dell’impresa, nel rispetto della legge il curatore deve provvedere al licenziamento dei dipendenti in esubero o comunque, in presenza dei presupposti di legge, si deve interessare per la concessione della Cassa Integrazione Guadagni.
Spetta dunque al curatore fallimentare, nel caso in cui con il fallimento cessi l’attività d’impresa, l’ingrato compito di licenziare i dipendenti dell’impresa.
Tale determinazione della curatela fallimentare, specialmente in passato, generava un vero e proprio stravolgimento della vita di interi gruppi familiari, in considerazione del fatto che all’interruzione del rapporto di lavoro si veniva a sommare per il lavoratore l’ulteriore pregiudizio rappresentato dalle retribuzioni e dal TFR eventualmente non corrisposti.
Qualcosa è cambiato per effetto della Legge n. 223 del 23 luglio 1991, la quale introdusse nel nostro ordinamento i c.d. “ammortizzatori sociali” che, ove attivati in conseguenza della dichiarazione di fallimento dell’impresa, hanno sinora garantito e garantiscono ancora oggi almeno un minimo di sopravvivenza ai lavoratori licenziati.
Vi è da dire i lavoratori, durante la fase di crisi dell’impresa, sono i primi a subire gli effetti negativi delle scelte sbagliate dell’imprenditore che spesso, essendo completamente privo di una visione prospettica, ritiene che per uscire dalla crisi d’impresa sia necessario ridurre il c.d. “costo del lavoro”, spesso ritenuto troppo alto.
Invero l’imprenditore dovrebbe comprendere che esercitare l’attività d’impresa vuol dire non soltanto avere in gestione beni o capitali, ma anche risorse umane e, quindi, vite umane.
Non bisogna dimenticare che se un imprenditore, dopo essere entrato in crisi, si accorge che nella sua impresa il c.d. “costo del lavoro” è troppo elevato non è certo colpa dei suoi dipendenti.
Invece l’imprenditore, nella maggior parte dei casi, ritiene che per uscire dalla crisi sia sufficiente ridurre il costo del lavoro senza, tuttavia, tenere in debita considerazione il nesso inscindibile che sussiste tra i seguenti elementi:
- costo del lavoro;
- qualità del bene prodotto;
- prezzo di vendita;
- quantità di prodotto immesso sul mercato;
- domanda del mercato.
Infatti mette conto rilevare che la diminuzione del “costo del lavoro” determina sempre una diminuzione di qualità del prodotto che, a sua volta, comporta per l’imprenditore la necessità di ridurre anche il relativo prezzo di vendita, al fine di scongiurare il rischio del c.d. “invenduto” (infatti un bene posto in vendita ad un prezzo notevolmente superiore alla sua qualità difficilmente potrà essere venduto ed è quindi destinato a divenire una probabile “rimanenza”).
Proprio le merci rimaste invendute generano, tuttavia, per l’imprenditore ulteriori costi che rappresentano una possibile causa di crisi aziendale (infatti la merce rimasta invenduta e riposta nei magazzini diminuisce ulteriormente di valore e l’imprenditore deve sopportare le spese per la sua conservazione ed eventualmente per il suo futuro smaltimento, oltre a dover pagare l’IVA anche sulla merce immessa sul mercato e rimasta invenduta).
A volte l’imprenditore in crisi tenta di uscirne riducendo il costo del lavoro e sostituendo ai dipendenti i macchinari destinati alla grande produzione e distribuzione.
Tuttavia anche in tale ultimo caso l’imprenditore, dopo aver percepito la minore qualità che avrà il suo prodotto e dopo avere conseguentemente ridotto il prezzo di vendita, al fine di ammortizzare il costo di quegli stessi impianti con i quali ha sostituto i dipendenti inizia (proprio attraverso i macchinari destinati ad una produzione in automatismo) ad immettere sul mercato una quantità abnorme di merce, senza tenere conto della proporzione e dell’equilibrio che invece deve sempre sussistere nel rapporto tra l’offerta di un bene e la relativa domanda presente sul mercato.
In tale ultimo caso l’imprenditore, attraverso una sovraproduzione di beni, rischia di immettere sul mercato una quantità di beni sovrabbondante rispetto alla domanda di mercato, incorrendo ugualmente nel rischio relativo alla c.d. merce “invenduta” e ai conseguenti costi che vengono a gravare sull’impresa.
E’ agevole notare come a volte l’imprenditore, proprio per evitare che eventuali rimanenze possano generare gli ulteriori costi di cui sopra, tenti di smaltire i beni eccedenti la domanda di mercato attraverso una loro offerta gratuita ai potenziali consumatori.
Il fenomeno da ultimo menzionato è di facile constatazione ove si considerino, ad esempio, le numerose offerte oggi riscontrabili in commercio e consistenti nel proporre ai consumatori di acquistare tre prodotti al medesimo prezzo di due.
Le considerazioni sopra esposte rendono, conclusivamente, evidente l’errore che talvolta commettono gli imprenditori quando ritengono di poter uscire dalla crisi d’impresa semplicemente riducendo il costo del lavoro a discapito dei dipendenti dell’impresa, senza tuttavia considerare i possibili effetti di una tale scelta in termini di produzione e di profitto.
Invece potrebbe rivelarsi maggiormente utile, anche durante la crisi di un’impresa, valorizzare le risorse umane, in quanto l’esperienza dei dipendenti e la loro professionalità rappresentano per l’impresa un imprescindibile ed irrinunciabile valore aggiunto, una risorsa alla quale si dovrebbe attingere proprio nei momenti di crisi, salvaguardando quindi i posti di lavoro e cercando insieme possibili soluzioni alternative di risanamento.
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Vi è stato un momento in cui, nel nostro Paese, nell’affrontare le problematiche connesse con la crisi d’impresa e nell’applicare il diritto concorsuale previsto dalla Legge Fallimentare del 1942 (con le sue procedure all’epoca ispirate dalla necessità di tutelare il ceto creditorio e al contempo di soddisfare l’interesse dello Stato a punire l’imprenditore insolvenze), si è dovuto tenere conto di molteplici altre esigenze parimenti importanti e meritevoli di tutela.
Questo momento storico coincise con l’emanazione, nel 1948, della Costituzione della Repubblica Italiana e con l’affermarsi delle conseguenti garanzie costituzionali, in primis il diritto al lavoro.
In generale può dirsi che i soggetti titolari di quegli stessi interessi costituzionalmente protetti si organizzarono in appositi organismi, in grado di sottoporre i loro interessi all’attenzione del legislatore per l’adozione degli opportuni provvedimenti legislativi di tutela.
Conseguentemente si venne a generare un quadro normativo in cui, se da un lato il codice civile adottato nel 1942 disponeva all’art. 2086 che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”, dall’altro la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 impose alla liberà di iniziativa economica dell’imprenditore il limite del naturale rispetto di altri diritti parimenti fondamentali e da tutelare in ogni modo, primo fra tutti il “diritto al lavoro”.
Proprio la Carta Costituzionale, infatti, se da un lato ha previsto che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (cfr. art. 41 della Costituzione della Repubblica Italiana), dall’altro ha sancito che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto” (cfr. art. 4 della Costituzione della Repubblica Italiana).
Per quanto concerne il “diritto al lavoro” riconosciuto dalla Carta Costituzionale si giunse inoltre, nel 1970, all’emanazione della Legge 20 maggio 1970, n. 300, ovvero dello Statuto dei Lavoratori.
Ne discende che, oggi, il governo della crisi d’impresa richiede necessariamente la massima tutela dei rapporti di lavoro dell’impresa in crisi.
Nel caso di dichiarazione di fallimento vale la regola secondo la quale non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro il fallimento dell’imprenditore (art. 2119 c.c.).
Tuttavia, visto che nella maggior parte dei casi con il fallimento cessa l’attività dell’impresa, nel rispetto della legge il curatore deve provvedere al licenziamento dei dipendenti in esubero o comunque, in presenza dei presupposti di legge, si deve interessare per la concessione della Cassa Integrazione Guadagni.
Spetta dunque al curatore fallimentare, nel caso in cui con il fallimento cessi l’attività d’impresa, l’ingrato compito di licenziare i dipendenti dell’impresa.
Tale determinazione della curatela fallimentare, specialmente in passato, generava un vero e proprio stravolgimento della vita di interi gruppi familiari, in considerazione del fatto che all’interruzione del rapporto di lavoro si veniva a sommare per il lavoratore l’ulteriore pregiudizio rappresentato dalle retribuzioni e dal TFR eventualmente non corrisposti.
Qualcosa è cambiato per effetto della Legge n. 223 del 23 luglio 1991, la quale introdusse nel nostro ordinamento i c.d. “ammortizzatori sociali” che, ove attivati in conseguenza della dichiarazione di fallimento dell’impresa, hanno sinora garantito e garantiscono ancora oggi almeno un minimo di sopravvivenza ai lavoratori licenziati.
Vi è da dire i lavoratori, durante la fase di crisi dell’impresa, sono i primi a subire gli effetti negativi delle scelte sbagliate dell’imprenditore che spesso, essendo completamente privo di una visione prospettica, ritiene che per uscire dalla crisi d’impresa sia necessario ridurre il c.d. “costo del lavoro”, spesso ritenuto troppo alto.
Invero l’imprenditore dovrebbe comprendere che esercitare l’attività d’impresa vuol dire non soltanto avere in gestione beni o capitali, ma anche risorse umane e, quindi, vite umane.
Non bisogna dimenticare che se un imprenditore, dopo essere entrato in crisi, si accorge che nella sua impresa il c.d. “costo del lavoro” è troppo elevato non è certo colpa dei suoi dipendenti.
Invece l’imprenditore, nella maggior parte dei casi, ritiene che per uscire dalla crisi sia sufficiente ridurre il costo del lavoro senza, tuttavia, tenere in debita considerazione il nesso inscindibile che sussiste tra i seguenti elementi:
- costo del lavoro;
- qualità del bene prodotto;
- prezzo di vendita;
- quantità di prodotto immesso sul mercato;
- domanda del mercato.
Infatti mette conto rilevare che la diminuzione del “costo del lavoro” determina sempre una diminuzione di qualità del prodotto che, a sua volta, comporta per l’imprenditore la necessità di ridurre anche il relativo prezzo di vendita, al fine di scongiurare il rischio del c.d. “invenduto” (infatti un bene posto in vendita ad un prezzo notevolmente superiore alla sua qualità difficilmente potrà essere venduto ed è quindi destinato a divenire una probabile “rimanenza”).
Proprio le merci rimaste invendute generano, tuttavia, per l’imprenditore ulteriori costi che rappresentano una possibile causa di crisi aziendale (infatti la merce rimasta invenduta e riposta nei magazzini diminuisce ulteriormente di valore e l’imprenditore deve sopportare le spese per la sua conservazione ed eventualmente per il suo futuro smaltimento, oltre a dover pagare l’IVA anche sulla merce immessa sul mercato e rimasta invenduta).
A volte l’imprenditore in crisi tenta di uscirne riducendo il costo del lavoro e sostituendo ai dipendenti i macchinari destinati alla grande produzione e distribuzione.
Tuttavia anche in tale ultimo caso l’imprenditore, dopo aver percepito la minore qualità che avrà il suo prodotto e dopo avere conseguentemente ridotto il prezzo di vendita, al fine di ammortizzare il costo di quegli stessi impianti con i quali ha sostituto i dipendenti inizia (proprio attraverso i macchinari destinati ad una produzione in automatismo) ad immettere sul mercato una quantità abnorme di merce, senza tenere conto della proporzione e dell’equilibrio che invece deve sempre sussistere nel rapporto tra l’offerta di un bene e la relativa domanda presente sul mercato.
In tale ultimo caso l’imprenditore, attraverso una sovraproduzione di beni, rischia di immettere sul mercato una quantità di beni sovrabbondante rispetto alla domanda di mercato, incorrendo ugualmente nel rischio relativo alla c.d. merce “invenduta” e ai conseguenti costi che vengono a gravare sull’impresa.
E’ agevole notare come a volte l’imprenditore, proprio per evitare che eventuali rimanenze possano generare gli ulteriori costi di cui sopra, tenti di smaltire i beni eccedenti la domanda di mercato attraverso una loro offerta gratuita ai potenziali consumatori.
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