Light Cannabis: la liceità della commercializzazione
La Corte di Cassazione, sez. VI penale con la sentenza n. 4920 del 31 gennaio 2019 ha chiarito i limiti entro cui la commercializzazione della cannabis, giuridicamente non considerata quale sostanza stupefacente, può dirsi legittima.
IL CASO
Il procedimento viene instaurato a seguito di ricorso per cassazione avverso ordinanza del Riesame del Tribunale di Macerata che confermava il sequestro preventivo operato su una quantità di infiorescenze di cannabis sativa, destinata alla commercializzazione, sul presupposto che:
ritenuto sussistente il fumus in relazione al reato di cui all’art. 73, comma 4, d.P.R. 309/1990, escludendo che la legge 3 dicembre 2016, n. 242, intitolata “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, invocata dal ricorrente, deroghi alla disciplina penale in materia di stupefacenti. In particolare, i giudici del riesame hanno sostenuto che sebbene la legge citata si ponga in rapporto di specialità rispetto alla disciplina generale in tema dei detenzione e cessioni di sostanze stupefacenti contenuta nel d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, non possa derogarvi in quanto non riguarda scopi ricreativi o voluttuari, regolamentando soltanto le coltivazioni di canapa delle varietà ammesse ex art. 17 direttiva 2005/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002, non rientranti nell’ambito di applicazione del d.P.R. n. 309/1990 e riferendosi esclusivamente alle condotte dell’agricoltore.
*********
La Suprema Corte, chiamata a decidere sulla normativa speciale in tema di canapa chiarisce preliminarmente i riferimenti normativi entro cui estendere l’analisi dei rapporti giuridici:
- P.R. 309/1990 “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”
- la n. 242/2016, “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”.
La tesi del ricorrente si basava sul presupposto che le infiorescenze di cannabis sativa – essendo originate dello sviluppo di semi rientranti nelle categorie legittime ex L. 242/2016 – non possano essere oggetto della normativa in materia di stupefacenti di cui al T.U. 309/1990.
La Corte in primo luogo chiarisce i rapporti tra le due normative di riferimento:
Il T.U. 309/1990 disciplina le attività illecite chiarendo nell’art. 73 che costituisce reato l’attività di Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 del medesimo testo unico.
La L. 242/2016, invece, mira a promuovere e diffondere la coltivazione e la filiera agroindustriale nazionale della canapa. Essa si applica alle coltivazioni di varietà di canapa ammesse e quindi che escludono l’applicazione T.U. 309/1990 non essendo utilizzata come stupefacente.
Ciò premesso, l’art. 4 della L. 242/2016 stabilisce il limite dello 0,6% di THC nella pianta, entro il quale la coltivazione è conforme alla legge e non è prevista alcuna responsabilità penale per l’agricoltore.
Tale limite consente di considerare la sostanza, eventualmente ottenuta dalla pianta, non stupefacente. Entro tale limite il sequestro o la distruzione della coltivazione sono ammessi solo se emerge, da ulteriori esami (oltre il generale obbligo di conservare i cartellini della semente e le fatture di acquisto) il superamento della soglia indicata.
Date le premesse, la Corte afferma che anche la eventuale commercializzazione della sostanza che rientri nelle categorie indicate e il cui livello di THC è sotto soglia può ritenersi legittimo ove il rivenditore sia in grado di documentare la provenienza lecita della sostanza.
Il rapporto tra il T.U. 309/1990 e la L 242/2016, infatti, non è di regola e di eccezione quindi non vi è motivo di limitare la liceità della vendita o detenzione o uso entro lo 0,6% di THC esclusivamente al coltivatore in quanto vale il principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge, ritenersi consentita nell’ambito del generale potere (agere licere) delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi (facultas agendi).
In altri termini, dalla liceità della coltivazione della cannabis, prevista dalla legge n. 242 del 2016, deriva la liceità dei suoi prodotti e quindi la possibilità di commercializzazione degli stessi purché il prodotto finale:
- derivi da semi contemplati dalla legge n. 242 del 2016
- contenenti un principio attivo THC inferiore allo 0,6%.
Diana De Gaetani
Light Cannabis: la liceità della commercializzazione
La Corte di Cassazione, sez. VI penale con la sentenza n. 4920 del 31 gennaio 2019 ha chiarito i limiti entro cui la commercializzazione della cannabis, giuridicamente non considerata quale sostanza stupefacente, può dirsi legittima.
IL CASO
Il procedimento viene instaurato a seguito di ricorso per cassazione avverso ordinanza del Riesame del Tribunale di Macerata che confermava il sequestro preventivo operato su una quantità di infiorescenze di cannabis sativa, destinata alla commercializzazione, sul presupposto che:
ritenuto sussistente il fumus in relazione al reato di cui all’art. 73, comma 4, d.P.R. 309/1990, escludendo che la legge 3 dicembre 2016, n. 242, intitolata “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, invocata dal ricorrente, deroghi alla disciplina penale in materia di stupefacenti. In particolare, i giudici del riesame hanno sostenuto che sebbene la legge citata si ponga in rapporto di specialità rispetto alla disciplina generale in tema dei detenzione e cessioni di sostanze stupefacenti contenuta nel d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, non possa derogarvi in quanto non riguarda scopi ricreativi o voluttuari, regolamentando soltanto le coltivazioni di canapa delle varietà ammesse ex art. 17 direttiva 2005/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002, non rientranti nell’ambito di applicazione del d.P.R. n. 309/1990 e riferendosi esclusivamente alle condotte dell’agricoltore.
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La Suprema Corte, chiamata a decidere sulla normativa speciale in tema di canapa chiarisce preliminarmente i riferimenti normativi entro cui estendere l’analisi dei rapporti giuridici:
- P.R. 309/1990 “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”
- la n. 242/2016, “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”.
La tesi del ricorrente si basava sul presupposto che le infiorescenze di cannabis sativa – essendo originate dello sviluppo di semi rientranti nelle categorie legittime ex L. 242/2016 – non possano essere oggetto della normativa in materia di stupefacenti di cui al T.U. 309/1990.
La Corte in primo luogo chiarisce i rapporti tra le due normative di riferimento:
Il T.U. 309/1990 disciplina le attività illecite chiarendo nell’art. 73 che costituisce reato l’attività di Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 del medesimo testo unico.
La L. 242/2016, invece, mira a promuovere e diffondere la coltivazione e la filiera agroindustriale nazionale della canapa. Essa si applica alle coltivazioni di varietà di canapa ammesse e quindi che escludono l’applicazione T.U. 309/1990 non essendo utilizzata come stupefacente.
Ciò premesso, l’art. 4 della L. 242/2016 stabilisce il limite dello 0,6% di THC nella pianta, entro il quale la coltivazione è conforme alla legge e non è prevista alcuna responsabilità penale per l’agricoltore.
Tale limite consente di considerare la sostanza, eventualmente ottenuta dalla pianta, non stupefacente. Entro tale limite il sequestro o la distruzione della coltivazione sono ammessi solo se emerge, da ulteriori esami (oltre il generale obbligo di conservare i cartellini della semente e le fatture di acquisto) il superamento della soglia indicata.
Date le premesse, la Corte afferma che anche la eventuale commercializzazione della sostanza che rientri nelle categorie indicate e il cui livello di THC è sotto soglia può ritenersi legittimo ove il rivenditore sia in grado di documentare la provenienza lecita della sostanza.
Il rapporto tra il T.U. 309/1990 e la L 242/2016, infatti, non è di regola e di eccezione quindi non vi è motivo di limitare la liceità della vendita o detenzione o uso entro lo 0,6% di THC esclusivamente al coltivatore in quanto vale il principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge, ritenersi consentita nell’ambito del generale potere (agere licere) delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi (facultas agendi).
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