Locazioni ad uso diverso: è possibile sanare la morosità?
Con sentenza n. 28502 del 2018 la Corte di Cassazione si è interessata di accertare se la sanatoria in giudizio della morosità sia possibile nelle locazioni ad uso non abitativo.
La vicenda prende avvio da una intimazione di sfratto per morosità relativa ad una locazione ad uso diverso notificata per il mancato pagamento di un trimestre di canone.
Il Tribunale dichiarava, previo mutamento del rito, l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto di locazione e condannava la conduttrice al rilascio dell’immobile.
La Corte di Appello, previo rigetto del gravame, confermava la sentenza di primo grado
ritenendo legittima la clausola risolutiva espressa prevista nel contratto invocata dalla locatrice stante il decorso del termine di 20 gg dalla scadenza stabilita in contratto precisando, altresì, che fosse irrilevante l’offerta della conduttrice avvenuta in udienza di pagare il debito.
La conduttrice proponeva, quindi, ricorso per cassazione sostenendo innanzitutto la vessatorietà della clausola che disponeva la risoluzione ipso iure del contratto per inosservanza del termine di pagamento.
Gli Ermellini ricordano che la clausola risolutiva espressa attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per un determinato inadempimento della controparte, dispensandola dall’onere di provarne l’importanza; essa, quindi, come già affermato più volte affermato dalla Suprema Corte, non ha carattere vessatorio, atteso che non è riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dall’art. 1341, comma 2, c.c., in quanto la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto è connessa alla stessa posizione di parte del contratto e la clausola risolutiva si limita soltanto a rafforzarla (Cass. 23065/2016; conf. 15365/2010); oltretutto non hanno carattere vessatorio le clausole riproduttive del contenuto di norme di legge; pertanto, non può considerarsi vessatoria la clausola risolutiva espressa inserita nel contratto di locazione di immobili urbani per uso non abitativo e riferita all’ipotesi di inosservanza del termine di pagamento dei canoni, in quanto riproduce il criterio legale di predeterminazione della gravità dell’inadempimento di cui all’art. 5 della legge 27 luglio 1978 n. 392 (Cass. 369/2000); disposto quest’ultimo non applicabile direttamente alle locazioni non abitative, ma ritenuto utilizzabile per quest’ultime come parametro per valutare la gravità dell’inadempimento (v. Cass. 1428/2017).
La conduttrice lamenta poi l’erroneità della sentenza impugnata laddove aveva ritenuto efficace la suddetta clausola sebbene la conduttrice avesse offerto in udienza di sanare la morosità.
Sul punto la Cassazione ribadisce il principio secondo cui nelle locazioni di immobili ad uso diverso dall’abitazione, alle quali (come noto: v. Cass. sez. unite 272/1999) non si applica la disciplina di cui all’art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (c.d. termine di grazia), l’offerta o il pagamento del canone, se effettuati dopo l’intimazione di sfratto, non consentono, da una parte, attesa l’insussistenza della persistente morosità di cui all’art. 663, terzo comma, c.p.c., l’emissione, ai sensi dell’art. 665 cod. proc. civ., del provvedimento interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, ma non comportano, dall’altra, nel giudizio susseguente a cognizione piena, l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, in quanto, ai sensi dell’art. 1453, terzo comma, cod. civ., dalla data della domanda – che è quella già avanzata ex art. 657 cod. proc. civ. con l’intimazione di sfratto, introduttiva della causa di risoluzione del contratto – il conduttore non può più adempiere (conf. Cass. 13248/2010).
Per tali motivi il Collegio ha respinto il ricorso.
Avv. Gavril Zaccaria
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La vicenda prende avvio da una intimazione di sfratto per morosità relativa ad una locazione ad uso diverso notificata per il mancato pagamento di un trimestre di canone.
Il Tribunale dichiarava, previo mutamento del rito, l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto di locazione e condannava la conduttrice al rilascio dell’immobile.
La Corte di Appello, previo rigetto del gravame, confermava la sentenza di primo grado
ritenendo legittima la clausola risolutiva espressa prevista nel contratto invocata dalla locatrice stante il decorso del termine di 20 gg dalla scadenza stabilita in contratto precisando, altresì, che fosse irrilevante l’offerta della conduttrice avvenuta in udienza di pagare il debito.
La conduttrice proponeva, quindi, ricorso per cassazione sostenendo innanzitutto la vessatorietà della clausola che disponeva la risoluzione ipso iure del contratto per inosservanza del termine di pagamento.
Gli Ermellini ricordano che la clausola risolutiva espressa attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per un determinato inadempimento della controparte, dispensandola dall’onere di provarne l’importanza; essa, quindi, come già affermato più volte affermato dalla Suprema Corte, non ha carattere vessatorio, atteso che non è riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dall’art. 1341, comma 2, c.c., in quanto la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto è connessa alla stessa posizione di parte del contratto e la clausola risolutiva si limita soltanto a rafforzarla (Cass. 23065/2016; conf. 15365/2010); oltretutto non hanno carattere vessatorio le clausole riproduttive del contenuto di norme di legge; pertanto, non può considerarsi vessatoria la clausola risolutiva espressa inserita nel contratto di locazione di immobili urbani per uso non abitativo e riferita all’ipotesi di inosservanza del termine di pagamento dei canoni, in quanto riproduce il criterio legale di predeterminazione della gravità dell’inadempimento di cui all’art. 5 della legge 27 luglio 1978 n. 392 (Cass. 369/2000); disposto quest’ultimo non applicabile direttamente alle locazioni non abitative, ma ritenuto utilizzabile per quest’ultime come parametro per valutare la gravità dell’inadempimento (v. Cass. 1428/2017).
La conduttrice lamenta poi l’erroneità della sentenza impugnata laddove aveva ritenuto efficace la suddetta clausola sebbene la conduttrice avesse offerto in udienza di sanare la morosità.
Sul punto la Cassazione ribadisce il principio secondo cui nelle locazioni di immobili ad uso diverso dall’abitazione, alle quali (come noto: v. Cass. sez. unite 272/1999) non si applica la disciplina di cui all’art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (c.d. termine di grazia), l’offerta o il pagamento del canone, se effettuati dopo l’intimazione di sfratto, non consentono, da una parte, attesa l’insussistenza della persistente morosità di cui all’art. 663, terzo comma, c.p.c., l’emissione, ai sensi dell’art. 665 cod. proc. civ., del provvedimento interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, ma non comportano, dall’altra, nel giudizio susseguente a cognizione piena, l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, in quanto, ai sensi dell’art. 1453, terzo comma, cod. civ., dalla data della domanda – che è quella già avanzata ex art. 657 cod. proc. civ. con l’intimazione di sfratto, introduttiva della causa di risoluzione del contratto – il conduttore non può più adempiere (conf. Cass. 13248/2010).
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