Published On: 13 Settembre 2018Categories: PROFESSIONISTI

Art. 236 della Legge Fallimentare. Per la Cassazione la continuità non determina esenzione

Recentemente sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” è stato pubblicato un articolo intitolato “Concordato con continuità sempre rilevante penalmente e contenente un commento della recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 39517 del 3 settembre 2018.

Con tale sentenza è stato affermato l’importante principio secondo cui l’avvenuta introduzione nella legge fallimentare – per effetto del decreto legge n. 83/2012 –  dell’art. 186 bis disciplinante la figura del concordato preventivo “con continuità aziendale” non comporterebbe modificazioni della norma extrapenale integratrice del precetto di cui all’art. 236 della medesima L. Fall., che trova applicazione anche in riferimento al concordato preventivo con continuità dell’attività di impresa”.

L’art. 236 della Legge Fallimentare, al secondo comma, n. 1 dispone che “E’ punito con la reclusione da uno a cinque anni l’imprenditore, che, al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo o di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o il consenso degli intermediari finanziari alla sottoscrizione della convenzione di moratoria di amministrazione controllata, si sia attribuito attività inesistenti, ovvero, per influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti”.

Trattasi quindi di condotte integranti il reato di bancarotta e che sono, però, punite anche se non seguite dalla dichiarazione di fallimento dell’impresa, ma dalla presentazione di una domanda per l’ammissione dell’impresa stessa alla procedura minore di concordato preventivo.

In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, l’art. 236 della Legge Fallimentare trova applicazione anche nell’ipotesi in cui a tali condotte segua la presentazione di una domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo “con continuità aziendale”.

Infatti tale particolare tipologia di concordato non rappresenta un’ipotesi di esenzione rispetto alla previsione e punizione delle gravi condotte criminose descritte dall’art. 236 della Legge Fallimentare.

La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza in commento, muove dalla considerazione secondo cui sarebbe irragionevole – a fronte di una norma che sanziona espressamente tali condotte anche ove seguite dalla richiesta dell’imprenditore in crisi di essere ammesso al concordato preventivo – individuare una specifica ipotesi di esenzione e, per l’appunto, quella rappresentata dalla richiesta di ammissione al concordato “in continuità aziendale”.

E’ stato evidenziato che la norma in discorso punisce condotte poste in essere prima della richiesta di ammissione alla procedura concordataria indipendentemente dalla tipologia di concordato (liquidatorio o con continuità aziendale) che sia stata in concreto scelta dall’imprenditore in crisi.

La Corte ha inoltre rilevato che le condotte descritte dalla norma di cui all’art. 236 della Legge Fallimentare, proprio in quanto generano lo stato di crisi, secondo la Corte di Cassazione mettono in pericolo le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio.

Il principio in discorso appare estremamente condivisibile in quanto il convincimento della Corte di Cassazione si pone in continuità logica con quanto dalla stessa giurisprudenza di legittimità era stato affermato in precedenti pronunzie.

Ad un tale riguardo si evidenzia che la Corte di Cassazione già con la sentenza n. 1221 del 7 giugno 1984 aveva affermato il principio secondo cui “non tanto esiste correlazione tra bancarotta e fallimento quanto tra bancarotta e procedure concorsuali in genere, le quali, nella universalità soggettiva ed oggettiva che le distingue, costituiscono tutte, a diverso livello di intervento, rimedi dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale”.

Inoltre già in precedenza la Corte di Cassazione aveva anche affermato il principio secondo cui quello previsto dall’art. 236, comma 2 n. 1 della Legge Fallimentare rappresenta un reato di pericolo e non di danno, in quanto la norma punitiva tende a tutelare l’interesse dei creditori a mantenere integra la garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio della società (cfr. ad esempio Corte di Cassazione, sentenza 6 ottobre 1999).

Peraltro mette conto rilevare che, per effetto dell’emanazione il 19 ottobre 2017 della legge delega per “la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, il nostro ordinamento si appresta ad una riforma del diritto concorsuale che darà preferenza alle procedure di composizione della crisi ispirate al concetto di “continuità” aziendale, in cui proprio il c.d. concordato preventivo “con continuità” è quindi destinato ad avere larga applicazione.

Infatti la legge delega in esame, indicando i principi ai quali il Governo dovrà attenersi nell’emanazione del nuovo “codice” delle procedure concorsuali, all’articolo 2 lettera g) dispone espressamente che occorrerà “dare priorità alla trattazione fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore” (legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017).

Ne consegue la logica conseguenza che ove la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39517 del 3 settembre 2018, avesse affermato rispetto al reato previsto dall’art. 236 della Legge Fallimentare il principio dell’esenzione in presenza di un concordato “con continuità aziendale” avrebbe, molto probabilmente, creato i presupposti per l’introduzione di una causa di esenzione destinata a divenire in futuro una vera e propria “regola” e, quindi, idonea a precludere quasi integralmente la punibilità di quelle condotte di cui la stessa Corte ha in passato sempre evidenziato la gravità.

Per tutte le ragioni sopra esposte si ritiene pienamente condivisibile il contrario orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con la recentissima sentenza in commento.

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Art. 236 della Legge Fallimentare. Per la Cassazione la continuità non determina esenzione

Recentemente sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” è stato pubblicato un articolo intitolato “Concordato con continuità sempre rilevante penalmente e contenente un commento della recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 39517 del 3 settembre 2018.

Con tale sentenza è stato affermato l’importante principio secondo cui l’avvenuta introduzione nella legge fallimentare – per effetto del decreto legge n. 83/2012 –  dell’art. 186 bis disciplinante la figura del concordato preventivo “con continuità aziendale” non comporterebbe modificazioni della norma extrapenale integratrice del precetto di cui all’art. 236 della medesima L. Fall., che trova applicazione anche in riferimento al concordato preventivo con continuità dell’attività di impresa”.

L’art. 236 della Legge Fallimentare, al secondo comma, n. 1 dispone che “E’ punito con la reclusione da uno a cinque anni l’imprenditore, che, al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo o di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o il consenso degli intermediari finanziari alla sottoscrizione della convenzione di moratoria di amministrazione controllata, si sia attribuito attività inesistenti, ovvero, per influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti”.

Trattasi quindi di condotte integranti il reato di bancarotta e che sono, però, punite anche se non seguite dalla dichiarazione di fallimento dell’impresa, ma dalla presentazione di una domanda per l’ammissione dell’impresa stessa alla procedura minore di concordato preventivo.

In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, l’art. 236 della Legge Fallimentare trova applicazione anche nell’ipotesi in cui a tali condotte segua la presentazione di una domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo “con continuità aziendale”.

Infatti tale particolare tipologia di concordato non rappresenta un’ipotesi di esenzione rispetto alla previsione e punizione delle gravi condotte criminose descritte dall’art. 236 della Legge Fallimentare.

La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza in commento, muove dalla considerazione secondo cui sarebbe irragionevole – a fronte di una norma che sanziona espressamente tali condotte anche ove seguite dalla richiesta dell’imprenditore in crisi di essere ammesso al concordato preventivo – individuare una specifica ipotesi di esenzione e, per l’appunto, quella rappresentata dalla richiesta di ammissione al concordato “in continuità aziendale”.

E’ stato evidenziato che la norma in discorso punisce condotte poste in essere prima della richiesta di ammissione alla procedura concordataria indipendentemente dalla tipologia di concordato (liquidatorio o con continuità aziendale) che sia stata in concreto scelta dall’imprenditore in crisi.

La Corte ha inoltre rilevato che le condotte descritte dalla norma di cui all’art. 236 della Legge Fallimentare, proprio in quanto generano lo stato di crisi, secondo la Corte di Cassazione mettono in pericolo le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio.

Il principio in discorso appare estremamente condivisibile in quanto il convincimento della Corte di Cassazione si pone in continuità logica con quanto dalla stessa giurisprudenza di legittimità era stato affermato in precedenti pronunzie.

Ad un tale riguardo si evidenzia che la Corte di Cassazione già con la sentenza n. 1221 del 7 giugno 1984 aveva affermato il principio secondo cui “non tanto esiste correlazione tra bancarotta e fallimento quanto tra bancarotta e procedure concorsuali in genere, le quali, nella universalità soggettiva ed oggettiva che le distingue, costituiscono tutte, a diverso livello di intervento, rimedi dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale”.

Inoltre già in precedenza la Corte di Cassazione aveva anche affermato il principio secondo cui quello previsto dall’art. 236, comma 2 n. 1 della Legge Fallimentare rappresenta un reato di pericolo e non di danno, in quanto la norma punitiva tende a tutelare l’interesse dei creditori a mantenere integra la garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio della società (cfr. ad esempio Corte di Cassazione, sentenza 6 ottobre 1999).

Peraltro mette conto rilevare che, per effetto dell’emanazione il 19 ottobre 2017 della legge delega per “la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, il nostro ordinamento si appresta ad una riforma del diritto concorsuale che darà preferenza alle procedure di composizione della crisi ispirate al concetto di “continuità” aziendale, in cui proprio il c.d. concordato preventivo “con continuità” è quindi destinato ad avere larga applicazione.

Infatti la legge delega in esame, indicando i principi ai quali il Governo dovrà attenersi nell’emanazione del nuovo “codice” delle procedure concorsuali, all’articolo 2 lettera g) dispone espressamente che occorrerà “dare priorità alla trattazione fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore” (legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017).

Ne consegue la logica conseguenza che ove la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39517 del 3 settembre 2018, avesse affermato rispetto al reato previsto dall’art. 236 della Legge Fallimentare il principio dell’esenzione in presenza di un concordato “con continuità aziendale” avrebbe, molto probabilmente, creato i presupposti per l’introduzione di una causa di esenzione destinata a divenire in futuro una vera e propria “regola” e, quindi, idonea a precludere quasi integralmente la punibilità di quelle condotte di cui la stessa Corte ha in passato sempre evidenziato la gravità.

Per tutte le ragioni sopra esposte si ritiene pienamente condivisibile il contrario orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con la recentissima sentenza in commento.

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