Calcio, il reato di lesioni personali durante una partita
La Corte di Cassazione, Sez. V Penale, con sentenza n. 11991/17, depositata il 13 marzo, si è pronunciata in materia di illecito sportivo e lesioni personali.
Nel caso di specie tre imputati sono stati condannati, sia in primo che in secondo grado, per aver commesso, durante una partita di calcio, il delitto di lesioni personali ex art. 582 c.p. ai danni di altri soggetti.
Gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa dai Giudici di seconde cure, lamentando, fra gli altri motivi, la mancata applicazione della scriminante atipica del cosiddetto rischio consentito nelle competizioni sportive.
I Magistrati del Palazzaccio chiamati a pronunciarsi sulla questione hanno, però, condiviso la decisione della Corte territoriale di escludere la sussistenza della suddetta scriminante poiché, nella fattispecie concreta, gli imputati hanno realizzato “un evento lesivo tramite una volontaria violazione delle regole di gioco, tale da superare la precondizione su cui si fonda la partecipazione alla gara stessa, del rispetto della realtà sportiva”.
Secondo gli Ermellini, infatti, nonostante, nel caso di specie, l’azione di gioco si fosse conclusa con l’impossessamento del pallone da parte del portiere gettatosi in terra per difenderlo, gli imputati lo hanno poi comunque colpito ripetutamente, oltrepassando palesemente le regole del gioco e lasciando già trasparire l’elemento intenzionale del delitto di lesioni; le altre parti lese, invece, sono state successivamente colpite per essere intervenute in difesa del loro compagno di squadra e, dunque, “in un contesto ormai avulso da ogni fisiologica dinamica di gioco e sportiva”.
Sul punto i Giudici della Suprema Corte hanno altresì richiamato la precedente sentenza n. 42114 del 04.07.2011 secondo la quale: “In tema di competizioni sportive, non è applicabile la cosiddetta scriminante del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva, considerato che nella disciplina calcistica l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero di movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area ecc.). In motivazione è stato precisato che l’area del rischio consentito è delimitata in rapporto all’osservanza delle regole tecniche del gioco praticato, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente, il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di quelle regole – colposo ossia involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrarie consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario, approfittando delle circostanze del gioco”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto ritenuto inammissibile il ricorso, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla refusione di quelle sostenute dalla parte civile.
Dott.ssa Carmen Giovannini
Calcio, il reato di lesioni personali durante una partita
La Corte di Cassazione, Sez. V Penale, con sentenza n. 11991/17, depositata il 13 marzo, si è pronunciata in materia di illecito sportivo e lesioni personali.
Nel caso di specie tre imputati sono stati condannati, sia in primo che in secondo grado, per aver commesso, durante una partita di calcio, il delitto di lesioni personali ex art. 582 c.p. ai danni di altri soggetti.
Gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa dai Giudici di seconde cure, lamentando, fra gli altri motivi, la mancata applicazione della scriminante atipica del cosiddetto rischio consentito nelle competizioni sportive.
I Magistrati del Palazzaccio chiamati a pronunciarsi sulla questione hanno, però, condiviso la decisione della Corte territoriale di escludere la sussistenza della suddetta scriminante poiché, nella fattispecie concreta, gli imputati hanno realizzato “un evento lesivo tramite una volontaria violazione delle regole di gioco, tale da superare la precondizione su cui si fonda la partecipazione alla gara stessa, del rispetto della realtà sportiva”.
Secondo gli Ermellini, infatti, nonostante, nel caso di specie, l’azione di gioco si fosse conclusa con l’impossessamento del pallone da parte del portiere gettatosi in terra per difenderlo, gli imputati lo hanno poi comunque colpito ripetutamente, oltrepassando palesemente le regole del gioco e lasciando già trasparire l’elemento intenzionale del delitto di lesioni; le altre parti lese, invece, sono state successivamente colpite per essere intervenute in difesa del loro compagno di squadra e, dunque, “in un contesto ormai avulso da ogni fisiologica dinamica di gioco e sportiva”.
Sul punto i Giudici della Suprema Corte hanno altresì richiamato la precedente sentenza n. 42114 del 04.07.2011 secondo la quale: “In tema di competizioni sportive, non è applicabile la cosiddetta scriminante del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario con un pugno al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva, considerato che nella disciplina calcistica l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero di movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area ecc.). In motivazione è stato precisato che l’area del rischio consentito è delimitata in rapporto all’osservanza delle regole tecniche del gioco praticato, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente, il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di quelle regole – colposo ossia involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrarie consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario, approfittando delle circostanze del gioco”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha pertanto ritenuto inammissibile il ricorso, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla refusione di quelle sostenute dalla parte civile.
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