Published On: 18 Marzo 2017Categories: Articoli, Diritto Penale, Marco Conti

Carta di credito aziendale per fini personali, è appropriazione indebita

Il caso concreto sul quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7910/2017 depositata il 17 febbraio, concerne un lavoratore indagato per aver illecitamente utilizzato la carta di credito aziendale al fine di fare rifornimento alla propria automobile configurando, di fatto, tale azione il reato di cui all’art. 55 comma 9, d.lgs. n. 231/2007.

Il Giudice di prime cure emetteva sentenza di non doversi procedere sull’assunto secondo cui l’imputato fosse legittimato all’uso delle carte di credito avendone possesso esclusivo e codice PIN, indispensabile per l’utilizzo della predetta. Il Tribunale riteneva dunque che la condotta ascritta al lavoratore potesse al massimo integrare una mera “infedeltà”.

Avverso il provvedimento emesso dal Giudice di primo grado, proponeva ricorso in Cassazione il Pubblico Ministero, il quale incentrava la propria doglianza su due aspetti principali: in primis se potesse sussistere in capo all’indagato la titolarità della carta, in secundis se il lavoratore avesse o meno perseguito il raggiungimento di un profitto proprio o altrui con coscienza e volontà.

Vieppiù, il p.m. poneva all’attenzione della Suprema Corte il fatto che, quandanche il lavoratore potesse essere considerato titolare della carta di credito utilizzata, la sua condotta sarebbe suscettibile di integrare la fattispecie di cui all’art. 646 c.p. “appropriazione indebita”.

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, giungeva alla conclusione che la titolarità della carta sussistesse legittimamente in capo all’indagato, stante il fatto che quest’ultimo ne avesse il possesso e l’esclusiva disponibilità. Ciò stante il Giudice di legittimità, per quanto alla rilevanza penale della condotta perpetrata dall’indagato, così si è pronunciata “ Diversamente da quanto ritenuto dal giudice per le indagini preliminari, però, non si può ritenere che il comportamento tenuto dall’indagato non sia penalmente rilevante, posto che, ove venisse dimostrata l’ipotesi dell’accusa, questi si sarebbe comunque appropriato della tessera di cui aveva il possesso, procurandosi un ingiusto profitto (il carburante prelevato), integrando così la fattispecie prevista dall’art. 646 cod.pen., aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 11 cod.pen.”.

Per quanto su esposto, la Suprema Corte annullava con rinvio la sentenza impugnata.

Dott. Marco Conti

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Published On: 18 Marzo 2017Categories: Articoli, Diritto Penale, Marco ContiBy

Carta di credito aziendale per fini personali, è appropriazione indebita

Il caso concreto sul quale ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7910/2017 depositata il 17 febbraio, concerne un lavoratore indagato per aver illecitamente utilizzato la carta di credito aziendale al fine di fare rifornimento alla propria automobile configurando, di fatto, tale azione il reato di cui all’art. 55 comma 9, d.lgs. n. 231/2007.

Il Giudice di prime cure emetteva sentenza di non doversi procedere sull’assunto secondo cui l’imputato fosse legittimato all’uso delle carte di credito avendone possesso esclusivo e codice PIN, indispensabile per l’utilizzo della predetta. Il Tribunale riteneva dunque che la condotta ascritta al lavoratore potesse al massimo integrare una mera “infedeltà”.

Avverso il provvedimento emesso dal Giudice di primo grado, proponeva ricorso in Cassazione il Pubblico Ministero, il quale incentrava la propria doglianza su due aspetti principali: in primis se potesse sussistere in capo all’indagato la titolarità della carta, in secundis se il lavoratore avesse o meno perseguito il raggiungimento di un profitto proprio o altrui con coscienza e volontà.

Vieppiù, il p.m. poneva all’attenzione della Suprema Corte il fatto che, quandanche il lavoratore potesse essere considerato titolare della carta di credito utilizzata, la sua condotta sarebbe suscettibile di integrare la fattispecie di cui all’art. 646 c.p. “appropriazione indebita”.

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, giungeva alla conclusione che la titolarità della carta sussistesse legittimamente in capo all’indagato, stante il fatto che quest’ultimo ne avesse il possesso e l’esclusiva disponibilità. Ciò stante il Giudice di legittimità, per quanto alla rilevanza penale della condotta perpetrata dall’indagato, così si è pronunciata “ Diversamente da quanto ritenuto dal giudice per le indagini preliminari, però, non si può ritenere che il comportamento tenuto dall’indagato non sia penalmente rilevante, posto che, ove venisse dimostrata l’ipotesi dell’accusa, questi si sarebbe comunque appropriato della tessera di cui aveva il possesso, procurandosi un ingiusto profitto (il carburante prelevato), integrando così la fattispecie prevista dall’art. 646 cod.pen., aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 11 cod.pen.”.

Per quanto su esposto, la Suprema Corte annullava con rinvio la sentenza impugnata.

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