Le responsabilità del medico curante sulla morte di un paziente
Il medico curante è responsabile della morte del paziente se non adempie allo specifico obbligo derivante dal contatto sociale. È quanto stabilito dalla III sezione della Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 4764/2016.
La pronuncia in commento ha preso avvio dalle doglianze del coniuge di una gestante che aveva perso la vita in seguito alle complicanze insorte durante l’ultima fase della sua gravidanza, il quale, in proprio e quale soggetto esercente la potestà genitoriale sui figli della vittima agiva in giudizio nei confronti dei medici coinvolti e della struttura sanitaria, allo scopo di ottenere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza della prematura scomparsa della partoriente.
Il Tribunale di primo grado condannava il ginecologo della signora al risarcimento dei danni ai congiunti superstiti. Rigettava, invece, le domande attoree nei confronti del medico di guardia e della struttura sanitaria che aveva ospitato la gestante.
La Corte di appello adita confermava le statuizioni del Giudice di prime cure cosicché, avverso la sentenza emessa dal Giudice dell’impugnazione, proponevano ricorso gli eredi del ginecologo.
I Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto congrua, rispetto al caso di specie, la decisione della Corte di appello poiché derivante da un iter logico – argomentativo convincente e giunto ad una coerente motivazione conclusiva.
In effetti, a parere dei Giudici di legittimità era stata correttamente allegata la prova dell’inadempimento del ginecologo di fiducia della vittima, il quale, nonostante fosse stato tempestivamente avvisato da parte del medico di guardia della clinica, del malore occorso alla sua paziente durante tutto l’arco del pomeriggio precedente la tragedia, non aveva adempiuto al proprio dovere di effettuare un esame approfondito delle condizioni della gestante in parola, né tanto meno aveva provveduto ad ordinarne il ricovero presso una struttura ospedaliera che potesse rispondere adeguatamente alle gravi esigenze del caso di specie.
Di talché, alla fine di un percorso logico – giuridico molto delicato gli Ermellini hanno così statuito: “…in tema di responsabilità contrattuale e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.
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La pronuncia in commento ha preso avvio dalle doglianze del coniuge di una gestante che aveva perso la vita in seguito alle complicanze insorte durante l’ultima fase della sua gravidanza, il quale, in proprio e quale soggetto esercente la potestà genitoriale sui figli della vittima agiva in giudizio nei confronti dei medici coinvolti e della struttura sanitaria, allo scopo di ottenere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza della prematura scomparsa della partoriente.
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In effetti, a parere dei Giudici di legittimità era stata correttamente allegata la prova dell’inadempimento del ginecologo di fiducia della vittima, il quale, nonostante fosse stato tempestivamente avvisato da parte del medico di guardia della clinica, del malore occorso alla sua paziente durante tutto l’arco del pomeriggio precedente la tragedia, non aveva adempiuto al proprio dovere di effettuare un esame approfondito delle condizioni della gestante in parola, né tanto meno aveva provveduto ad ordinarne il ricovero presso una struttura ospedaliera che potesse rispondere adeguatamente alle gravi esigenze del caso di specie.
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