Diffamazione, quando si configura il delitto
Si ha diffamazione tutte le volte in cui ad essere lesa è la dignità e la reputazione personale in considerazione sia dell’opinione del gruppo sociale di appartenenza, secondo il relativo contesto storico, che in riferimento all’infondatezza dell’accusa rivolta: così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 4286 del 2016.
È stato proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Vercelli, in qualità di giudice d’Appello, che, ai sensi dell’art. 595 c.p., condanna il ricorrente per il reato di diffamazione ai danni di due dirigenti di un Consorzio, i quali sono stati additati in pubblico come mafiosi. Il ricorrente ritiene che le frasi pronunciate mancano del tutto di carattere diffamatorio, essendo riferite a polemiche che negli anni precedenti hanno caratterizzato l’attività del Consorzio stesso. Nel secondo motivo, il ricorrente, precisa che deve ravvisarsi l’impossibilità di parlare di reato di diffamazione poiché, avendo esso stesso, esercitato il diritto di critica, ai sensi dall’art. 51 c.p., resterebbe esclusa la punibilità nel caso di commissione di un reato.
Premettendo che il delitto di diffamazione si identifica in un reato a forma libera e pertanto si perfeziona con la semplice offesa della reputazione di una persona, quando questa è rivolta a più persone, la Cassazione ha tenuto a precisare che l’offesa deve considerarsi non una lesione della reputazione che ognuno ha di se stesso, ma più precisamente una lesione del senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico.
Ha inoltre evidenziato che uno dei limiti del diritto di critica è la continenza, precisando che, tale limite, non si considera oltrepassato nel caso di espressioni, infamanti e umilianti, che siano da descrivere come semplice aggressione verbale al soggetto offeso. Infatti il suddetto limite si considera rispettato, fintanto che la critica è rivolta unicamente e direttamente al fatto concreto, ma, precisa la Corte, quando l’offesa discrimina in termini generali la persona e le sue qualità, esulando dalla vicenda concreta, si ritiene il limite predetto superato e si integra perfettamente il delitto di diffamazione.
Nel caso di specie, l’imputato ha oggettivamente leso la reputazione delle persone offese sia per la considerazione delle organizzazioni mafiose che è univoca e sfavorevole, che per l’infondatezza, la genericità e la portata denigratoria dell’offesa alla reputazione e alla dignità dei soggetti diffamati. Pertanto la Cassazione ha rigettato il ricorso.
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È stato proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Vercelli, in qualità di giudice d’Appello, che, ai sensi dell’art. 595 c.p., condanna il ricorrente per il reato di diffamazione ai danni di due dirigenti di un Consorzio, i quali sono stati additati in pubblico come mafiosi. Il ricorrente ritiene che le frasi pronunciate mancano del tutto di carattere diffamatorio, essendo riferite a polemiche che negli anni precedenti hanno caratterizzato l’attività del Consorzio stesso. Nel secondo motivo, il ricorrente, precisa che deve ravvisarsi l’impossibilità di parlare di reato di diffamazione poiché, avendo esso stesso, esercitato il diritto di critica, ai sensi dall’art. 51 c.p., resterebbe esclusa la punibilità nel caso di commissione di un reato.
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