Published On: 24 Novembre 2022Categories: Diritto Tributario

Studio Scicchitano e Agenzia Entrate: se contribuente ha ragione non serve la Cassazione

IL GIUDICATO ESTERNO SOPRAVVENUTO NEL RICORSO TRIBUTARIO

Nonostante le due sentenze emesse dal GIP presso il Tribunale di Reggio Emilia, con le quali si disponeva non doversi procedere “perché il fatto non sussiste” nei confronti della Società e del suo  l.r.p.t. per i reati di stampa clandestina (art. 16, L. n. 47/1948) e di divulgazione di stampa clandestina ex art. 663 bis c.p., la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in riforma della sentenza della CTP Bari, condannava la società al pagamento dell’avviso di accertamento pari ad oltre € 200.000,00 per aver portato in deduzione dei costi relativi ad attività asseritamente illecita e consistente in diffusione, distribuzione e pubblicazione di stampa clandestina, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993,.

Avverso la sentenza della CTR, la Società – per il tramite del proprio difensore Avv. Prof. Sergio Scicchitano – proponeva tempestivo e rituale ricorso per Cassazione, adducendo la violazione proprio dell’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993 e dell’art. 654 c.p.p.

Il comma 4 bis della citata norma stabilisce la non deducibilità dei costi direttamente sostenuti per la commissione di un reato doloso.

Invero, nel caso di specie, le condotte di stampa clandestina e di divulgazione di stampa clandestina contestate alla società ricorrente, nonché al suo amministratore unico, erano state giudicate assolutamente lecite all’esito di un procedimento penale che si era concluso con il passaggio in giudicato delle due sentenze assolutorie “perché il fatto non sussiste” adottate dal GIP presso il Tribunale di Reggio Emilia.

Perciò, proprio per tali considerazioni, la Società – all’interno del ricorso per Cassazione notificato all’Agenzia delle Entrate,– faceva valere la violazione dell’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993 e dell’art. 654 c.p.p., il quale espressamente stabilisce che la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale.

Quanto sostenuto dalla ricorrente all’interno del ricorso trova piena conferma anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha sancito il seguente principio di diritto: «Nel giudizio di Cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. Si tratta infatti di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto. Il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione. Tale garanzia di stabilità, collegata all’attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive, non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato; questi ultimi, d’altronde, comprovando la sopravvenuta formazione di una regula iuris alla quale il giudice ha il dovere di conformarsi in relazione al caso concreto, attengono ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione, e sono quindi riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso. La produzione di tali documenti può aver luogo unitamente al ricorso per cassazione, se si tratta di giudicato formatosi in pendenza del termine per l’impugnazione, ovvero, nel caso di formazione successiva alla notifica del ricorso, fino all’udienza di discussione prima dell’inizio della relazione; qualora la produzione abbia luogo oltre il termine stabilito dall’art. 378 c.p.c. per il deposito delle memorie, dovendo essere assicurata la garanzia del contraddittorio, la Corte, avvalendosi dei poteri riconosciutile dall’art. 384, comma 3, c.p.c., nel testo modificato dal d.lg. 2006, n. 40, deve assegnare alle parti un opportuno termine per il deposito in cancelleria di eventuali osservazioni» (Cass. civile, S.U., 16.06.2006, n. 13916; Cass. civile, Sez. lavoro, 19.06.2007, n. 14190; Cass. civile, Sez. I, 23.12.2010, n. 26041; Cass. civile, Sez. II, 22.01.2018, n. 1534; Cass. civile, Sez. II, 17.06.2021, n. 17387).

Ed infatti, proprio sulla scorta delle autorevoli ragioni di diritto enunciate all’interno del ricorso per Cassazione proposto dalla Società e nel periodo compreso tra la notifica dello stesso e la sua successiva iscrizione a ruolo, l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Bari, ha adottato un provvedimento in autotutela mediante il quale ha annullato totalmente l’avviso di accertamento notificato a suo tempo alla Società, privandolo di qualsiasi effetto.

L’Ente impositore ha, infatti, aderito completamente al motivo di ricorso sopra richiamato ed ha, conseguentemente, ritenuto che non vi fossero più i presupposti per contestare l’indeducibilità dei costi originariamente recuperati a tassazione in quanto costi da reato.

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IL GIUDICATO ESTERNO SOPRAVVENUTO NEL RICORSO TRIBUTARIO

Nonostante le due sentenze emesse dal GIP presso il Tribunale di Reggio Emilia, con le quali si disponeva non doversi procedere “perché il fatto non sussiste” nei confronti della Società e del suo  l.r.p.t. per i reati di stampa clandestina (art. 16, L. n. 47/1948) e di divulgazione di stampa clandestina ex art. 663 bis c.p., la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in riforma della sentenza della CTP Bari, condannava la società al pagamento dell’avviso di accertamento pari ad oltre € 200.000,00 per aver portato in deduzione dei costi relativi ad attività asseritamente illecita e consistente in diffusione, distribuzione e pubblicazione di stampa clandestina, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993,.

Avverso la sentenza della CTR, la Società – per il tramite del proprio difensore Avv. Prof. Sergio Scicchitano – proponeva tempestivo e rituale ricorso per Cassazione, adducendo la violazione proprio dell’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993 e dell’art. 654 c.p.p.

Il comma 4 bis della citata norma stabilisce la non deducibilità dei costi direttamente sostenuti per la commissione di un reato doloso.

Invero, nel caso di specie, le condotte di stampa clandestina e di divulgazione di stampa clandestina contestate alla società ricorrente, nonché al suo amministratore unico, erano state giudicate assolutamente lecite all’esito di un procedimento penale che si era concluso con il passaggio in giudicato delle due sentenze assolutorie “perché il fatto non sussiste” adottate dal GIP presso il Tribunale di Reggio Emilia.

Perciò, proprio per tali considerazioni, la Società – all’interno del ricorso per Cassazione notificato all’Agenzia delle Entrate,– faceva valere la violazione dell’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993 e dell’art. 654 c.p.p., il quale espressamente stabilisce che la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale.

Quanto sostenuto dalla ricorrente all’interno del ricorso trova piena conferma anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha sancito il seguente principio di diritto: «Nel giudizio di Cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. Si tratta infatti di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto. Il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione. Tale garanzia di stabilità, collegata all’attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive, non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato; questi ultimi, d’altronde, comprovando la sopravvenuta formazione di una regula iuris alla quale il giudice ha il dovere di conformarsi in relazione al caso concreto, attengono ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione, e sono quindi riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso. La produzione di tali documenti può aver luogo unitamente al ricorso per cassazione, se si tratta di giudicato formatosi in pendenza del termine per l’impugnazione, ovvero, nel caso di formazione successiva alla notifica del ricorso, fino all’udienza di discussione prima dell’inizio della relazione; qualora la produzione abbia luogo oltre il termine stabilito dall’art. 378 c.p.c. per il deposito delle memorie, dovendo essere assicurata la garanzia del contraddittorio, la Corte, avvalendosi dei poteri riconosciutile dall’art. 384, comma 3, c.p.c., nel testo modificato dal d.lg. 2006, n. 40, deve assegnare alle parti un opportuno termine per il deposito in cancelleria di eventuali osservazioni» (Cass. civile, S.U., 16.06.2006, n. 13916; Cass. civile, Sez. lavoro, 19.06.2007, n. 14190; Cass. civile, Sez. I, 23.12.2010, n. 26041; Cass. civile, Sez. II, 22.01.2018, n. 1534; Cass. civile, Sez. II, 17.06.2021, n. 17387).

Ed infatti, proprio sulla scorta delle autorevoli ragioni di diritto enunciate all’interno del ricorso per Cassazione proposto dalla Società e nel periodo compreso tra la notifica dello stesso e la sua successiva iscrizione a ruolo, l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Bari, ha adottato un provvedimento in autotutela mediante il quale ha annullato totalmente l’avviso di accertamento notificato a suo tempo alla Società, privandolo di qualsiasi effetto.

L’Ente impositore ha, infatti, aderito completamente al motivo di ricorso sopra richiamato ed ha, conseguentemente, ritenuto che non vi fossero più i presupposti per contestare l’indeducibilità dei costi originariamente recuperati a tassazione in quanto costi da reato.

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