La ricostruzione del nesso di causalità in presenza di un evento con plurime cause
Con la recente sentenza n. 25884/2022, la Corte di Cassazione è autorevolmente intervenuta sulla vexata quaestio delle modalità di ricostruzione del nesso di causalità in presenza di un evento dannoso suscettibile di essere cagionato da una pluralità di eventi, fra loro astrattamente idonei alla causazione del medesimo danno in concreto verificatosi.
La vicenda aveva ad oggetto un episodio di malpractice sanitaria, dal quale era scaturito – nel corso di un intervento chirurgico – la morte di un paziente a causa di una complicazione verificatasi (secondo la tesi degli attori) a causa dell’imperita esecuzione dell’operazione presso la struttura sanitaria dove era avvenuto il ricovero.
Tuttavia, in entrambi i gradi di merito, i Giudici di prime cure avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno patito dalle parti (in proprio e iure hereditatis) non ritenendo provato il nesso eziologico fra la condotta esigibile da parte dei sanitari e il danno in concreto riportato dal paziente.
Nel dettaglio, in entrambi i gradi di merito, dalle CTU erano risultate varie teorie di ricostruzione del nesso di causalità dalle quali non era emerso con sufficiente chiarezza quale delle medesime “ipotesi alternative fosse più probabile”: ossia, non si evinceva se – nella causazione dell’evento mortale del paziente – prevalesse una responsabilità dei sanitari per imperizia ovvero se lo stesso fosse da addebitarsi ad una condizione clinica del paziente, non prevedibile e non evitabile secondo le linee-guida in materia.
I giudici di merito concludevano per l’insussistenza di una responsabilità in capo ai sanitari, sull’assunto che non era stato sufficientemente provato l’elemento effettivamente causativo del danno, non essendo del tutto espungibile l’ipotesi che la complicazione operatoria (dalla quale era conseguita la morte) fosse dipesa da una condizione clinica pregressa del paziente, non rimediabile o evitabile dalle condotte esigibili dai sanitari.
Infine, le parti soccombenti impugnavano la sentenza d’appello in Cassazione.
In primo luogo, la Corte di Cassazione – riprendendo autorevoli precedenti giurisprudenziali – ha inteso chiarire una fondamentale questione inerente il riparto dell’onere della prova, statuendo che: “i ricorrenti avevano correttamente adempiuto all’onere probatorio dimostrando la sussistenza di un contratto di prestazione sanitaria, il danno mortale effettivamente subito dal defunto e – attraverso le CTU e la relazione autoptica del PM – la condotta colposa dei medici i quali (in violazione delle leges artis dettate dalla miglior scienza ed esperienza medica) avevano determinato […] le condizioni che hanno condotto alla morte del paziente”. Per contro, invece, in applicazione dei criteri di riparto dell’onere probatorio: “spettava ai medici […] l’onere di provare che la prestazione era stata correttamente eseguita e che [l’evento mortale] era stato determinato da un evento imprevedibile e imprevisto”.
Tanto premesso, la Suprema Corte ricostruisce poi l’iter argomentativo da seguire nella ricostruzione del nesso di causalità, stabilendo che – qualora l’evento sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause – il giudice deve applicare il criterio della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”, dovendo effettuare un’operazione composta da tre fasi:
- eliminazione delle ipotesi meno probabili (perché meno corroborate dai dati fattuali);
- analisi delle ipotesi restanti, ritenute maggiormente probabili;
- scelta – fra le ipotesi residuate – di quella che abbia ricevuto (secondo un ragionamento inferenziale) il maggior grado di conferma dagli elementi fattuali aventi fondamento scientifico e razionale, la quale assume la veste di “probabilità prevalente”;
Tanto premesso, la Corte cassa la sentenza impugnata (rinviando gli atti alla Corte d’Appello) ritenendo che la stessa abbia scorrettamente ripartito l’onere probatorio, ritenendo non gravante sul debitore (i sanitari) l’onere di provare che l’evento dannoso fosse stato determinato da una causa a lui non imputabile, in quanto imprevedibile e inevitabile nel caso di specie.
Dott. Alberto Grassi
La ricostruzione del nesso di causalità in presenza di un evento con plurime cause
Con la recente sentenza n. 25884/2022, la Corte di Cassazione è autorevolmente intervenuta sulla vexata quaestio delle modalità di ricostruzione del nesso di causalità in presenza di un evento dannoso suscettibile di essere cagionato da una pluralità di eventi, fra loro astrattamente idonei alla causazione del medesimo danno in concreto verificatosi.
La vicenda aveva ad oggetto un episodio di malpractice sanitaria, dal quale era scaturito – nel corso di un intervento chirurgico – la morte di un paziente a causa di una complicazione verificatasi (secondo la tesi degli attori) a causa dell’imperita esecuzione dell’operazione presso la struttura sanitaria dove era avvenuto il ricovero.
Tuttavia, in entrambi i gradi di merito, i Giudici di prime cure avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno patito dalle parti (in proprio e iure hereditatis) non ritenendo provato il nesso eziologico fra la condotta esigibile da parte dei sanitari e il danno in concreto riportato dal paziente.
Nel dettaglio, in entrambi i gradi di merito, dalle CTU erano risultate varie teorie di ricostruzione del nesso di causalità dalle quali non era emerso con sufficiente chiarezza quale delle medesime “ipotesi alternative fosse più probabile”: ossia, non si evinceva se – nella causazione dell’evento mortale del paziente – prevalesse una responsabilità dei sanitari per imperizia ovvero se lo stesso fosse da addebitarsi ad una condizione clinica del paziente, non prevedibile e non evitabile secondo le linee-guida in materia.
I giudici di merito concludevano per l’insussistenza di una responsabilità in capo ai sanitari, sull’assunto che non era stato sufficientemente provato l’elemento effettivamente causativo del danno, non essendo del tutto espungibile l’ipotesi che la complicazione operatoria (dalla quale era conseguita la morte) fosse dipesa da una condizione clinica pregressa del paziente, non rimediabile o evitabile dalle condotte esigibili dai sanitari.
Infine, le parti soccombenti impugnavano la sentenza d’appello in Cassazione.
In primo luogo, la Corte di Cassazione – riprendendo autorevoli precedenti giurisprudenziali – ha inteso chiarire una fondamentale questione inerente il riparto dell’onere della prova, statuendo che: “i ricorrenti avevano correttamente adempiuto all’onere probatorio dimostrando la sussistenza di un contratto di prestazione sanitaria, il danno mortale effettivamente subito dal defunto e – attraverso le CTU e la relazione autoptica del PM – la condotta colposa dei medici i quali (in violazione delle leges artis dettate dalla miglior scienza ed esperienza medica) avevano determinato […] le condizioni che hanno condotto alla morte del paziente”. Per contro, invece, in applicazione dei criteri di riparto dell’onere probatorio: “spettava ai medici […] l’onere di provare che la prestazione era stata correttamente eseguita e che [l’evento mortale] era stato determinato da un evento imprevedibile e imprevisto”.
Tanto premesso, la Suprema Corte ricostruisce poi l’iter argomentativo da seguire nella ricostruzione del nesso di causalità, stabilendo che – qualora l’evento sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause – il giudice deve applicare il criterio della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”, dovendo effettuare un’operazione composta da tre fasi:
- eliminazione delle ipotesi meno probabili (perché meno corroborate dai dati fattuali);
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Dott. Alberto Grassi
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