È istigazione all’odio il “Like” sul post razzista
Con la sentenza n. 4534/2022, la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso una misura cautelare disposta dal GIP per il reato di istigazione all’odio razziale.
Il Tribunale di Roma, infatti, aveva confermato l’ordinanza con cui il GIP aveva applicato all’imputato la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla PG in ordine ai reati di cui agli articoli 604 bis, primo e secondo comma, del codice penale.
L’imputazione veniva formulata sulla scorta del monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme social operanti su Facebook, VKontacte e Whatsapp, che aveva disvelato non solo la creazione di una comunità virtuale caratterizzata da una vocazione ideologica neonazista, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee on line fondate sull’antisemitismo, il negazionismo e l’affermazione della superiorità della razza bianca.
Inoltre, il quadro accusatorio era arricchito da alcune conversazioni intercettate e dalle quali era emersa l’aderenza dell’imputato ad un gruppo di persone che condividevano i suoi stessi ideali e con le quali sono avvenuti anche diversi incontri.
La difesa, nel ricorso proposto, faceva presente che i contatti fisici con i sedicenti appartenenti all’organizzazione erano irrilevanti ai fini della configurazione del reato contestato, sostenendo inoltre la tesi secondo cui i “like” costituivano tuttalpiù un’espressione di gradimento, senza essere affatto dimostrativi né dell’appartenenza al gruppo né della condivisione degli scopi illeciti soprattutto perché i contenuti graditi non sfociavano mai nell’antisemitismo e non travalicavano mai i confini della libera manifestazione del pensiero.
Gli Ermellini, però, hanno condiviso le conclusioni cui è giunto il Tribunale del riesame, dichiarando pertanto inammissibile il ricorso.
La Cassazione, infatti, ha ritenuto provata la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli non solo in virtù dei rapporti di frequentazione (fisici e ripetuti) che lo stesso aveva con gli altri appartenenti alla comunità virtuale, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti sulle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza (ebrei identificati come veri nemici e la Shoah indicata come menzogna madornale).
I Giudici di legittimità hanno, pertanto, ritenuto concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone soprattutto se si considera la modalità di funzionamento di Facebook incentrata su un algoritmo che considera rilevanti i like.
Si legge nella sentenza, infatti, che
«la funzionalità “newsfeed”, ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio».
Quanto alle esigenze cautelari, la Suprema Corte ha ritenuto sussistente il pericolo di reiterazione del reato desumendolo dalla recente epoca di consumazione dei reati e dalla personalità dell’imputato il quale, in considerazione del contenuto delle conversazioni intercettate, non aveva mai manifestato alcuna forma di ripensamento critico e, anzi, aveva continuato a gravitare nel contesto relazionale ed ideologico del movimento virtuale, determinando i Giudici di legittimità a ritenere pertanto adeguata la misura dell’obbligo di firma.
È istigazione all’odio il “Like” sul post razzista
Con la sentenza n. 4534/2022, la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso una misura cautelare disposta dal GIP per il reato di istigazione all’odio razziale.
Il Tribunale di Roma, infatti, aveva confermato l’ordinanza con cui il GIP aveva applicato all’imputato la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla PG in ordine ai reati di cui agli articoli 604 bis, primo e secondo comma, del codice penale.
L’imputazione veniva formulata sulla scorta del monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme social operanti su Facebook, VKontacte e Whatsapp, che aveva disvelato non solo la creazione di una comunità virtuale caratterizzata da una vocazione ideologica neonazista, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee on line fondate sull’antisemitismo, il negazionismo e l’affermazione della superiorità della razza bianca.
Inoltre, il quadro accusatorio era arricchito da alcune conversazioni intercettate e dalle quali era emersa l’aderenza dell’imputato ad un gruppo di persone che condividevano i suoi stessi ideali e con le quali sono avvenuti anche diversi incontri.
La difesa, nel ricorso proposto, faceva presente che i contatti fisici con i sedicenti appartenenti all’organizzazione erano irrilevanti ai fini della configurazione del reato contestato, sostenendo inoltre la tesi secondo cui i “like” costituivano tuttalpiù un’espressione di gradimento, senza essere affatto dimostrativi né dell’appartenenza al gruppo né della condivisione degli scopi illeciti soprattutto perché i contenuti graditi non sfociavano mai nell’antisemitismo e non travalicavano mai i confini della libera manifestazione del pensiero.
Gli Ermellini, però, hanno condiviso le conclusioni cui è giunto il Tribunale del riesame, dichiarando pertanto inammissibile il ricorso.
La Cassazione, infatti, ha ritenuto provata la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli non solo in virtù dei rapporti di frequentazione (fisici e ripetuti) che lo stesso aveva con gli altri appartenenti alla comunità virtuale, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti sulle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza (ebrei identificati come veri nemici e la Shoah indicata come menzogna madornale).
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