Legge di Bilancio e modiche al T.U. in materia di spese di giustizia
Un precedente costituzionale vale a chiarire la vexata quaestio sul “nuovo” art. 16, D.P.R. 115/2002.
È notizia degli ultimi giorni che il movimento forense ha espresso disappunto pressoché unanime circa l’ultima versione del Disegno di Legge Bilancio.
Non è infatti passata inosservata l’introduzione, nella versione attualmente in discussione al Senato in Commissione Bilancio, di una disposizione – segnatamente l’art. 192 – che comporterebbe, ove trasposta nel testo definitivo della Legge, rilevanti modifiche al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in materia di spese di giustizia.
La citata disposizione, rubricata “Disposizioni in materia di contributo unificato”, si propone infatti di introdurre una modifica sostanziale dell’art. 16, D.P.R. 115/2002, prevedendo che, in caso di omesso pagamento del contributo unificato, o nel caso in cui l’importo versato non sia corrispondente al valore della causa dichiarato, il personale incaricato sarà tenuto a non procedere all’iscrizione della causa a ruolo.
Nella Relazione Tecnica di accompagnamento, si legge infatti che l’entrata al regime del processo civile telematico, con la possibilità dunque dell’iscrizione a ruolo telematica della causa, ha determinato un progressivo aumento dell’evasione del pagamento del contributo unificato.
Di conseguenza, la ratio della nuova norma sarebbe quella di evitare un adempimento per la cancelleria e per Equitalia Giustizia dovuto alla procedura di recupero dei crediti (descritta come “farraginosa”), nonché quella di realizzare un’immediata riscossione dell’importo del contributo dovuto, per tale via contraendo notevolmente i tempi di svolgimento dei processi.
Comprensibilmente, la norma ha suscitato notevole disappunto e feroci polemiche da parte della galassia forense.
Facendo seguito alle dichiarazioni dell’Organismo congressuale forense – che ha definito il pagamento anticipato per iscrivere la causa come “un ritorno al Medioevo” –, da ultimo, anche i Consigli degli Ordini degli avvocati di Roma, Milano e Napoli hanno pubblicato un comunicato congiunto, con cui si denuncia il “gravissimo vulnus alla giurisdizione e ai diritti del cittadino” che deriverebbe dall’approvazione della norma, e si chiede altresì al Governo di ritirare la proposta ed ai parlamentari di respingere l’attuale formulazione della norma.
Invero, non si può fare a meno di osservare come la prospettata modifica al t.u. in materia di spese di giustizia segni un evidente “cambio di rotta” rispetto all’approccio storicamente adottato dal legislatore in punto di bilanciamento tra l’interesse fiscale alla riscossione dell’imposta e quello all’attuazione della tutela giurisdizionale.
Tale approccio, infatti, è stato sempre ispirato, sia pur nei vari testi di legge avvicendatisi negli anni, da un unico principio, a sua volta mutuato dall’art. 24 Cost.: il mancato pagamento del contributo unificato al momento dell’iscrizione a ruolo della causa, se da un lato rappresenta certamente una irregolarità sul piano fiscale, con conseguente segnalazione dell’inadempimento da parte della cancelleria all’ufficio preposto al recupero del credito, dall’altro non può avere ripercussioni sul piano giudiziario, dovendosi assegnare prevalenza all’interesse, costituzionalmente garantito, all’attuazione ed effettività della tutela giurisdizionale.
Di fronte al tentativo di scardinamento di un principio di tale importanza, che affonda le sue radici nel dettato costituzionale, non resta che chiedersi, alla maniera dei Latini, cui prodest?
Sul punto, sono chiare le indicazioni fornite dalla Relazione Tecnica di accompagnamento all’attuale bozza della Legge di Bilancio, laddove si legge che, per il tramite della nuova formulazione dell’art. 16 cit., si realizzerebbe un’immediata riscossione dell’importo del contributo dovuto e si contrarrebbero notevolmente i tempi di svolgimento dei processi (cfr. Disegno di Legge Bilancio 2022, Tomo I, pag. 237).
Se, da un lato, non si può certo revocare in dubbio l’importanza della tutela dell’Erario, rispetto alla eventualità di mancati versamenti del contributo unificato, è pur vero, dall’altro, che una siffatta esigenza non può essere perseguita tramite il sacrificio del prominente interesse alla effettività della tutela giurisdizionale.
Sul punto, è agevole scorgere profili di incostituzionalità della norma così come attualmente formulata.
In particolare, appare dirimente la sentenza del 5 ottobre 2001, n. 333, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della Legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo).
La norma oggetto della declaratoria di illegittimità poneva infatti, quale “condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile locato”, la dimostrazione che il contratto di locazione fosse stato registrato, che l’immobile fosse stato denunciato ai fini dell’applicazione dell’ICI e che il reddito derivante dall’immobile medesimo fosse stato dichiarato ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi.
Il Tribunale rimettente aveva osservato come la predetta disposizione comportasse un irragionevole limite al diritto di agire esecutivamente, e si ponesse dunque in contrasto con il diritto di agire in giudizio tutelato dall’art. 24 Cost., sicuramente riferibile anche alla fase dell’esecuzione forzata.
Il giudice delle leggi, dal canto suo, ha chiarito che “il problema della compatibilità tra il principio costituzionale che garantisce a tutti la tutela giurisdizionale, e le norme che impongono determinati oneri a chi quella tutela richieda” richiede una preventiva distinzione fra quegli oneri imposti dallo scopo di agevolare lo svolgimento del processo rispetto a quelli tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali.
Difatti, mentre i primi – in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si tratta di garantire – devono ritenersi consentiti, “i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo all’esperimento della tutela giurisdizionale e comportano, perciò, la violazione dell’art. 24 Cost”.
Alla luce della citata esperienza costituzionale, si può conclusivamente ritenere che l’art. 192 dell’attuale bozza della Legge di Bilancio si ponga in radicale e (forse) insanabile contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
Pertanto, non resta che sperare che il legislatore nazionale “torni sui propri passi”, accordando la adeguata tutela ai diritti di chi voglia agire giudizialmente; diritti, questi ultimi, da anteporre alla (pur giusta) esigenza di tutela dell’Erario.
Del resto, il legislatore ha il dovere di ascoltare – e, se meritevoli, assecondare – le riserve espresse da una così cospicua parte del mondo forense.
Dott. Mario Alletto
Legge di Bilancio e modiche al T.U. in materia di spese di giustizia
Un precedente costituzionale vale a chiarire la vexata quaestio sul “nuovo” art. 16, D.P.R. 115/2002.
È notizia degli ultimi giorni che il movimento forense ha espresso disappunto pressoché unanime circa l’ultima versione del Disegno di Legge Bilancio.
Non è infatti passata inosservata l’introduzione, nella versione attualmente in discussione al Senato in Commissione Bilancio, di una disposizione – segnatamente l’art. 192 – che comporterebbe, ove trasposta nel testo definitivo della Legge, rilevanti modifiche al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in materia di spese di giustizia.
La citata disposizione, rubricata “Disposizioni in materia di contributo unificato”, si propone infatti di introdurre una modifica sostanziale dell’art. 16, D.P.R. 115/2002, prevedendo che, in caso di omesso pagamento del contributo unificato, o nel caso in cui l’importo versato non sia corrispondente al valore della causa dichiarato, il personale incaricato sarà tenuto a non procedere all’iscrizione della causa a ruolo.
Nella Relazione Tecnica di accompagnamento, si legge infatti che l’entrata al regime del processo civile telematico, con la possibilità dunque dell’iscrizione a ruolo telematica della causa, ha determinato un progressivo aumento dell’evasione del pagamento del contributo unificato.
Di conseguenza, la ratio della nuova norma sarebbe quella di evitare un adempimento per la cancelleria e per Equitalia Giustizia dovuto alla procedura di recupero dei crediti (descritta come “farraginosa”), nonché quella di realizzare un’immediata riscossione dell’importo del contributo dovuto, per tale via contraendo notevolmente i tempi di svolgimento dei processi.
Comprensibilmente, la norma ha suscitato notevole disappunto e feroci polemiche da parte della galassia forense.
Facendo seguito alle dichiarazioni dell’Organismo congressuale forense – che ha definito il pagamento anticipato per iscrivere la causa come “un ritorno al Medioevo” –, da ultimo, anche i Consigli degli Ordini degli avvocati di Roma, Milano e Napoli hanno pubblicato un comunicato congiunto, con cui si denuncia il “gravissimo vulnus alla giurisdizione e ai diritti del cittadino” che deriverebbe dall’approvazione della norma, e si chiede altresì al Governo di ritirare la proposta ed ai parlamentari di respingere l’attuale formulazione della norma.
Invero, non si può fare a meno di osservare come la prospettata modifica al t.u. in materia di spese di giustizia segni un evidente “cambio di rotta” rispetto all’approccio storicamente adottato dal legislatore in punto di bilanciamento tra l’interesse fiscale alla riscossione dell’imposta e quello all’attuazione della tutela giurisdizionale.
Tale approccio, infatti, è stato sempre ispirato, sia pur nei vari testi di legge avvicendatisi negli anni, da un unico principio, a sua volta mutuato dall’art. 24 Cost.: il mancato pagamento del contributo unificato al momento dell’iscrizione a ruolo della causa, se da un lato rappresenta certamente una irregolarità sul piano fiscale, con conseguente segnalazione dell’inadempimento da parte della cancelleria all’ufficio preposto al recupero del credito, dall’altro non può avere ripercussioni sul piano giudiziario, dovendosi assegnare prevalenza all’interesse, costituzionalmente garantito, all’attuazione ed effettività della tutela giurisdizionale.
Di fronte al tentativo di scardinamento di un principio di tale importanza, che affonda le sue radici nel dettato costituzionale, non resta che chiedersi, alla maniera dei Latini, cui prodest?
Sul punto, sono chiare le indicazioni fornite dalla Relazione Tecnica di accompagnamento all’attuale bozza della Legge di Bilancio, laddove si legge che, per il tramite della nuova formulazione dell’art. 16 cit., si realizzerebbe un’immediata riscossione dell’importo del contributo dovuto e si contrarrebbero notevolmente i tempi di svolgimento dei processi (cfr. Disegno di Legge Bilancio 2022, Tomo I, pag. 237).
Se, da un lato, non si può certo revocare in dubbio l’importanza della tutela dell’Erario, rispetto alla eventualità di mancati versamenti del contributo unificato, è pur vero, dall’altro, che una siffatta esigenza non può essere perseguita tramite il sacrificio del prominente interesse alla effettività della tutela giurisdizionale.
Sul punto, è agevole scorgere profili di incostituzionalità della norma così come attualmente formulata.
In particolare, appare dirimente la sentenza del 5 ottobre 2001, n. 333, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della Legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo).
La norma oggetto della declaratoria di illegittimità poneva infatti, quale “condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile locato”, la dimostrazione che il contratto di locazione fosse stato registrato, che l’immobile fosse stato denunciato ai fini dell’applicazione dell’ICI e che il reddito derivante dall’immobile medesimo fosse stato dichiarato ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi.
Il Tribunale rimettente aveva osservato come la predetta disposizione comportasse un irragionevole limite al diritto di agire esecutivamente, e si ponesse dunque in contrasto con il diritto di agire in giudizio tutelato dall’art. 24 Cost., sicuramente riferibile anche alla fase dell’esecuzione forzata.
Il giudice delle leggi, dal canto suo, ha chiarito che “il problema della compatibilità tra il principio costituzionale che garantisce a tutti la tutela giurisdizionale, e le norme che impongono determinati oneri a chi quella tutela richieda” richiede una preventiva distinzione fra quegli oneri imposti dallo scopo di agevolare lo svolgimento del processo rispetto a quelli tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali.
Difatti, mentre i primi – in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si tratta di garantire – devono ritenersi consentiti, “i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo all’esperimento della tutela giurisdizionale e comportano, perciò, la violazione dell’art. 24 Cost”.
Alla luce della citata esperienza costituzionale, si può conclusivamente ritenere che l’art. 192 dell’attuale bozza della Legge di Bilancio si ponga in radicale e (forse) insanabile contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
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