Corte Costituzionale: non ci sono soglie di punibilità in materia di frode fiscale mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti – Sentenza n. 5 del 2019
Con la sentenza n.95 del 2019, la Corte Costituzionale ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata con ordinanza del 13 luglio 2017 dal Tribunale di Palermo, per asserito contrasto con l’art.3 della Costituzione, dell’art. 2, D.Lgs. n.74/2000 (nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n.205) nella parte in cui non prevede che la condotta delittuosa ivi descritta sia punibile quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento ad ogni singola imposta ad euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche tramite indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro cinquecento mila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque ad euro trentamila”.
A giudizio del remittente, infatti, la mancata previsione di soglie di punibilità analoghe a quelle indicate dall‘art. 3 D.Lgs. n.74/2000, sarebbe sintomatico di un’arbitraria disparità di trattamento, posto che, le due fattispecie sarebbero sostanzialmente identiche, essendo accomunate dalla struttura bifasica ed essendo riconducibili all’unico genus della frode fiscale. Il giudice delle prime cure aggiunge, inoltre, che le condotte previste dall’art. 3 esporrebbero il medesimo bene giuridico – costituito dall’interesse dell’erario alla piena e rapida percezione dei tributi – ad un pericolo concreto “sicuramente eguale”, se non addirittura più elevato, rispetto a quello indotto dalle condotte punite dall’art.2.
Ad ulteriore dimostrazione della sostanziale omogeneità delle due figure di reato deporrebbero, inoltre: per un verso, il loro rapporto di specialità reciproca dal momento che al nucleo comune di offensività, costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, si aggiungono in chiave specializzante, da un lato, l’utilizzazione di fatture o di documenti aventi un rilievo probatorio analogo, relativi ad operazioni inesistenti ( art.2) e, dall’altro, il compimento di operazioni simulate sul piano oggettivo o soggettivo, ovvero l’utilizzazione di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento tributario (art. 3); per altro verso, l’evidente sovrapposizione tra le operazioni “inesistenti” dell’art.2 e quelle “simulate” dell’art.3, la cui distinzione dipenderebbe unicamente dall’esistenza o meno del documento contabile nonché dell’eventuale copertura cartolare offerta dalla fattura.
Inoltre, stando all’ordinanza di remissione, una tale differenza di trattamento non sarebbe neppure giustificata in base alla particolare efficacia probatoria attribuita dalla legislazione tributaria alla fattura o ad un documento ad essa equiparate, non potendosi escludere che il compimento di operazioni simulate e l’impiego di mezzi fraudolenti siano idonei a indurre in errore l’amministrazione finanziaria con il medesimo, se non maggiore, grado di insidiosità dell’uso di fatture per operazioni inesistenti.
Di diverso avviso era la Corte Costituzionale che, dopo aver preliminarmente ribadito il noto orientamento giurisprudenziale secondo cui le scelte legislative sono censurabili solo ove valichino i confini della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrio-come avverrebbe nel caso in cui ci si trovasse di fronte ad una diversità di disciplina tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione- esclude ogni censura della “strategia” antifrode adottata dal legislatore che, nel non prevedere soglie e nel punire anche l’emittente ai sensi dell‘art. 8 D.Lgs.74/2000, tiene in considerazione il peculiare ruolo assunto dalla fattura e dei documenti ad essa equiparati sul piano probatorio dalla normativa fiscale nel quadro dell’adempimento degli obblighi del contribuente e della capacità di sviamento dell’attività accertativa degli uffici finanziari, anche in relazione all’attestazione di eventuali deduzioni o detrazioni in materia di imposte dirette, nonché all’attuazione del principio di neutralità dell’imposta rispetto ai soggetti passivi IVA, mediante il meccanismo della rivalsa e della detrazione.
In particolare, come affermato dalla più recente giurisprudenza, ogni qualvolta l’ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni inesistenti, grava su di esso l’onere di dimostrare che l’operazione fatturata non è stata realmente effettuata o che è stata effettuata, ma tra soggetti doversi da quelli in essa indicati.
Peraltro, la diversità della disciplina penalistica in virtù della natura del documento su cui ricade la condotta è un elemento costante anche nei delitti di falso, dal momento che la falsità in testamento olografo, cambiale o altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (art. 491 c.p.) è punita in maniera più stringente rispetto alla falsità generica in qualunque altra scrittura privata (art.485 c.p.), ora persino depenalizzata a seguito delle modifiche introdotte con il D.Lgs. n.7/2016.
La Corte prosegue sostenendo che, nell‘art. 2 D.Lgs. 74/2000, il legislatore ha inteso far emergere lo speciale disvalore di “azione” che, nel suo apprezzamento, in sé non manifestamente irragionevole, la fattispecie specifica presenta.
D’altro canto, l’affermazione del giudice a quo – stando alla quale le condotte descritte dall’art. 3 potrebbero rappresentare, per la loro particolare insidiosità, un pericolo in concreto sicuramente eguale, se non più elevato, per il bene giuridico rispetto a quelle punite dall‘art. 2 – appare in sé apodittica, data la mancata indicazione, nell’ordinanza di remissione, di alcuna ipotesi che valga a dimostrare l’assunto; così come appare una mera valutazione soggettiva l’idea che quelle condotte siano più insidiose per l’erario rispetto a quelle di cui all’art.3 D.Lgs. 74/2000.
Alla disomogeneità delle fattispecie corrisponde, pertanto, una ragionevole diversità di trattamento normativo, peraltro confermato dal legislatore con le riforme del D.L. 138/2011 e del D.Lgs. 158/2015, rispetto alla quale la Corte non può che ravvisare, allo stato, una carenza di argomentazione contraria da parte del remittente.
Sulla base di tali argomentazioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell‘art.2 del D.Lgs. n.74/2000, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
Dott.ssa Giorgia Gennari
Fonte foto: database freepik
Corte Costituzionale: non ci sono soglie di punibilità in materia di frode fiscale mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti – Sentenza n. 5 del 2019
Con la sentenza n.95 del 2019, la Corte Costituzionale ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata con ordinanza del 13 luglio 2017 dal Tribunale di Palermo, per asserito contrasto con l’art.3 della Costituzione, dell’art. 2, D.Lgs. n.74/2000 (nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n.205) nella parte in cui non prevede che la condotta delittuosa ivi descritta sia punibile quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento ad ogni singola imposta ad euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche tramite indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro cinquecento mila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque ad euro trentamila”.
A giudizio del remittente, infatti, la mancata previsione di soglie di punibilità analoghe a quelle indicate dall‘art. 3 D.Lgs. n.74/2000, sarebbe sintomatico di un’arbitraria disparità di trattamento, posto che, le due fattispecie sarebbero sostanzialmente identiche, essendo accomunate dalla struttura bifasica ed essendo riconducibili all’unico genus della frode fiscale. Il giudice delle prime cure aggiunge, inoltre, che le condotte previste dall’art. 3 esporrebbero il medesimo bene giuridico – costituito dall’interesse dell’erario alla piena e rapida percezione dei tributi – ad un pericolo concreto “sicuramente eguale”, se non addirittura più elevato, rispetto a quello indotto dalle condotte punite dall’art.2.
Ad ulteriore dimostrazione della sostanziale omogeneità delle due figure di reato deporrebbero, inoltre: per un verso, il loro rapporto di specialità reciproca dal momento che al nucleo comune di offensività, costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, si aggiungono in chiave specializzante, da un lato, l’utilizzazione di fatture o di documenti aventi un rilievo probatorio analogo, relativi ad operazioni inesistenti ( art.2) e, dall’altro, il compimento di operazioni simulate sul piano oggettivo o soggettivo, ovvero l’utilizzazione di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento tributario (art. 3); per altro verso, l’evidente sovrapposizione tra le operazioni “inesistenti” dell’art.2 e quelle “simulate” dell’art.3, la cui distinzione dipenderebbe unicamente dall’esistenza o meno del documento contabile nonché dell’eventuale copertura cartolare offerta dalla fattura.
Inoltre, stando all’ordinanza di remissione, una tale differenza di trattamento non sarebbe neppure giustificata in base alla particolare efficacia probatoria attribuita dalla legislazione tributaria alla fattura o ad un documento ad essa equiparate, non potendosi escludere che il compimento di operazioni simulate e l’impiego di mezzi fraudolenti siano idonei a indurre in errore l’amministrazione finanziaria con il medesimo, se non maggiore, grado di insidiosità dell’uso di fatture per operazioni inesistenti.
Di diverso avviso era la Corte Costituzionale che, dopo aver preliminarmente ribadito il noto orientamento giurisprudenziale secondo cui le scelte legislative sono censurabili solo ove valichino i confini della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrio-come avverrebbe nel caso in cui ci si trovasse di fronte ad una diversità di disciplina tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione- esclude ogni censura della “strategia” antifrode adottata dal legislatore che, nel non prevedere soglie e nel punire anche l’emittente ai sensi dell‘art. 8 D.Lgs.74/2000, tiene in considerazione il peculiare ruolo assunto dalla fattura e dei documenti ad essa equiparati sul piano probatorio dalla normativa fiscale nel quadro dell’adempimento degli obblighi del contribuente e della capacità di sviamento dell’attività accertativa degli uffici finanziari, anche in relazione all’attestazione di eventuali deduzioni o detrazioni in materia di imposte dirette, nonché all’attuazione del principio di neutralità dell’imposta rispetto ai soggetti passivi IVA, mediante il meccanismo della rivalsa e della detrazione.
In particolare, come affermato dalla più recente giurisprudenza, ogni qualvolta l’ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni inesistenti, grava su di esso l’onere di dimostrare che l’operazione fatturata non è stata realmente effettuata o che è stata effettuata, ma tra soggetti doversi da quelli in essa indicati.
Peraltro, la diversità della disciplina penalistica in virtù della natura del documento su cui ricade la condotta è un elemento costante anche nei delitti di falso, dal momento che la falsità in testamento olografo, cambiale o altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (art. 491 c.p.) è punita in maniera più stringente rispetto alla falsità generica in qualunque altra scrittura privata (art.485 c.p.), ora persino depenalizzata a seguito delle modifiche introdotte con il D.Lgs. n.7/2016.
La Corte prosegue sostenendo che, nell‘art. 2 D.Lgs. 74/2000, il legislatore ha inteso far emergere lo speciale disvalore di “azione” che, nel suo apprezzamento, in sé non manifestamente irragionevole, la fattispecie specifica presenta.
D’altro canto, l’affermazione del giudice a quo – stando alla quale le condotte descritte dall’art. 3 potrebbero rappresentare, per la loro particolare insidiosità, un pericolo in concreto sicuramente eguale, se non più elevato, per il bene giuridico rispetto a quelle punite dall‘art. 2 – appare in sé apodittica, data la mancata indicazione, nell’ordinanza di remissione, di alcuna ipotesi che valga a dimostrare l’assunto; così come appare una mera valutazione soggettiva l’idea che quelle condotte siano più insidiose per l’erario rispetto a quelle di cui all’art.3 D.Lgs. 74/2000.
Alla disomogeneità delle fattispecie corrisponde, pertanto, una ragionevole diversità di trattamento normativo, peraltro confermato dal legislatore con le riforme del D.L. 138/2011 e del D.Lgs. 158/2015, rispetto alla quale la Corte non può che ravvisare, allo stato, una carenza di argomentazione contraria da parte del remittente.
Sulla base di tali argomentazioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell‘art.2 del D.Lgs. n.74/2000, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
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