Grave patologia psichica del condannato: gli arresti domiciliari sono applicabili
La Corte di Cassazione Penale, Sez. I, con sentenza n. 29488/19 (dep. 05.07.19) , è intervenuta sull’istituto della detenzione domiciliare e nello specifico – sulla possibilità di applicare tale misura anche alle ipotesi di grave patologia psichica del condannato – ha espresso il seguente principio di diritto: “è in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2,3, 27 terzo comma, 32 e 117 primo comma della Costituzione l’assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo ad un supplemento di pena contrario al senso di umanità”.
La pronuncia de quo trae origine dal ricorso – proposto da un condannato sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord.pen. – avverso l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva rigettato la richiesta dell’intimante volta ad ottenere il differimento della pena o la detenzione domiciliare per la grave patologia di tipo psichico in cui versava.
Nello specifico il ricorso si fondava su tre motivi: i) vizio di motivazione per mancata valutazione della domanda di ricovero nella REMS ai sensi dell’art. 47 ter co.1, legge n. 345 del 1975 e dell’art. 11, legge n. 354 del 1975; ii) mancata valutazione delle dichiarazioni espresse dai sanitari circa l’incompatibilità del ricorrente con il regime detentivo; iii) violazione dell’art. 3 Conv. Edu e dell’art. 127 della Costituzione.
La Suprema Corte – richiamando la pronuncia n. 99 del 20.02.19 della Corte Costituzionale con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47ter, co 1 ter, legge n. 345 del 75, nella parte in cui non prevedeva che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza potesse disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare – ha ritenuto fondato il ricorso.
Nello specifico premesso che “occorre che l’ordinamento preveda percorsi terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata incompatibilità con l’ambiente carcerario, e misure alternative alla detenzione carceraria, tenendo conto della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato”, la Corte ha affermato che – visti i principi costituzionali coinvolti di cui agli artt. 2,3,27, terzo comma, 32 e 117, primo comma Cost. – in assenza di un complessivo intervento del legislatore, deve ritenersi applicabile lo strumento della detenzione domiciliare di cui all’art. 47ter co. 1 ter anche alle ipotesi di infermità psichica.
Infine gli Ermellini hanno precisato che alla valutazione della applicabilità della detenzione domiciliare ‘in deroga’ non può ritenersi di ostacolo né l’entità del residuo pena né il titolo del reato in esecuzione né l’attuale sottoposizione del ricorrente al regime differenziato di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario.
Dott.ssa Simona Arcieri
Grave patologia psichica del condannato: gli arresti domiciliari sono applicabili
La Corte di Cassazione Penale, Sez. I, con sentenza n. 29488/19 (dep. 05.07.19) , è intervenuta sull’istituto della detenzione domiciliare e nello specifico – sulla possibilità di applicare tale misura anche alle ipotesi di grave patologia psichica del condannato – ha espresso il seguente principio di diritto: “è in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2,3, 27 terzo comma, 32 e 117 primo comma della Costituzione l’assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo ad un supplemento di pena contrario al senso di umanità”.
La pronuncia de quo trae origine dal ricorso – proposto da un condannato sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord.pen. – avverso l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva rigettato la richiesta dell’intimante volta ad ottenere il differimento della pena o la detenzione domiciliare per la grave patologia di tipo psichico in cui versava.
Nello specifico il ricorso si fondava su tre motivi: i) vizio di motivazione per mancata valutazione della domanda di ricovero nella REMS ai sensi dell’art. 47 ter co.1, legge n. 345 del 1975 e dell’art. 11, legge n. 354 del 1975; ii) mancata valutazione delle dichiarazioni espresse dai sanitari circa l’incompatibilità del ricorrente con il regime detentivo; iii) violazione dell’art. 3 Conv. Edu e dell’art. 127 della Costituzione.
La Suprema Corte – richiamando la pronuncia n. 99 del 20.02.19 della Corte Costituzionale con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47ter, co 1 ter, legge n. 345 del 75, nella parte in cui non prevedeva che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza potesse disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare – ha ritenuto fondato il ricorso.
Nello specifico premesso che “occorre che l’ordinamento preveda percorsi terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata incompatibilità con l’ambiente carcerario, e misure alternative alla detenzione carceraria, tenendo conto della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato”, la Corte ha affermato che – visti i principi costituzionali coinvolti di cui agli artt. 2,3,27, terzo comma, 32 e 117, primo comma Cost. – in assenza di un complessivo intervento del legislatore, deve ritenersi applicabile lo strumento della detenzione domiciliare di cui all’art. 47ter co. 1 ter anche alle ipotesi di infermità psichica.
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Dott.ssa Simona Arcieri
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