L'indebito arricchimento della PA e l'indennizzo al professionista
Propedeutico all’esatto inquadramento della questione giuridica in esame, è un breve excursus dell’istituto.
L’azione di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. nei confronti della P.A., è stata ab origine condizionata dal riconoscimento, in capo alla P.A., di una discrezionalità sull’utilità dell’opera o della prestazione; tale ultimo requisito, peraltro, era considerato necessario presupposto per la configurazione dell’elemento oggettivo dell’arricchimento.
Proprio in ragione della citata discrezionalità, si è dunque riconosciuto un limite al sindacato del giudice ordinario, di fatto impossibilitato a sindacare un provvedimento amministrativo.
In applicazione di tale principio, onde esperire l’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della P.A., la giurisprudenza tradizionale richiedeva un provvedimento formale di espresso riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione.
Tale impostazione, tuttavia, è stata oggetto di numerose critiche da parte della dottrina più accorta, la quale ha sottolineato che il riconoscimento dell’utilità dell’opera rappresenta un requisito di cui l’art. 2041 c.c. non fa alcuna menzione.
A supporto delle attente critiche opposte dalla dottrina a tale impostazione ermeneutica, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza n. 10798/2015, hanno fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’istituto in esame, accedendo alla tesi dell’arricchimento come presupposto di mero fatto di carattere oggettivo, suscettibile di accertamento da parte del G.O. anche in assenza di una manifestazione di volontà o di giudizio da parte della P.A.
In particolare, gli Ermellini hanno sottolineato come l’impostazione restrittiva che richiedeva – ai fini dell’operatività della norma di cui all’art. 2041 c.c. – il provvedimento formale di accertamento dell’utilità dell’opera da parte della PA., si poneva in netto contrasto con l’art. 24 della Costituzione, inerente il diritto di azione.
Ancora, i Giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato che una tale interpretazione finiva per svilire il ruolo stesso del giudice che, così ragionando, avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della decisione della P.A., contraddicendo la funzione stessa del processo.
Sulla base di ciò, la Suprema Corte è giunta a concludere che il riconoscimento provvedimentale dell’utilità da parte della P.A. non può rappresentare un ulteriore elemento della fattispecie di arricchimento ingiustificato ex art. 2041 c.c., potendo – al più – assumere rilevanza solo sul piano probatorio, ossia sul piano dell’imputabilità dell’arricchimento ad un determinato ente.
Con specifico riguardo alla quantificazione dell’indennizzo a fronte di prestazioni di fare che siano riconducibili a contratti d’opera manuale o professionale, poi, l’azione di arricchimento senza causa nei confronti della P.A. ha posto ulteriori problemi.
In particolare, la questione attiene all’estensione dell’indennizzo al lucro cessante nelle ipotesi di nullità dei contratti stipulati con la P.A. aventi ad oggetto prestazioni professionali.
Sul punto, gli Ermellini, nella loro composizione più autorevole, con sentenza del 2008 hanno riconosciuto al professionista il diritto ad ottenere l’indennizzo pari alle spese affrontate per le opere richieste, escludendo nella definizione del quantum il lucro cessante; ciò, in quanto: in primis si sottolinea come l’art. 2041 c.c. sia estraneo alla logica riparatoria propria, invece, del risarcimento del danno; in secundis, la Corte ha evidenziato come l’estensione dell’indennizzo anche al lucro cessante, finirebbe per svilire la sanzione di nullità del contratto posto in essere in violazione di norme inderogabili.
Ciò chiarito, fondamentale risulta comunque l’intervento delle Sezioni Unite del 2015 che, come sopra evidenziato, ha categoricamente escluso che il riconoscimento dell’utilità dell’opera sia essenziale ai fini dell’esperimento dell’azione di ingiustificato arricchimento.
Nel solco di tale pronuncia, con la sentenza numero 15937 del 27/6/2017, gli Ermellini hanno successivamente ribadito che “…il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c., nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso; tuttavia, le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della P.A. trovano adeguata tutela nel principio di diritto comune del cd. “arricchimento imposto”, potendo, invece, l’Amministrazione eccepire e provare che l’indennizzo non è dovuto laddove l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento ovvero non ha potuto rifiutarlo perché inconsapevole dell’eventum utilitatis…”).
Ancora più recentemente, la III Sezione della Suprema Corte, con sentenza n. 16793 del 26 giugno 2018, ha ritenuto di dover dare continuità a tale consolidato orientamento, ribadendo che il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito, non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, in quanto il depauperato ha esclusivamente l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso.
In tale occasione, il Supremo Consesso, ha altresì precisato che l’utilitas per la P.A.:
- può consistere anche in un risparmio di spesa (cfr. Cass., n. 9141 del 21/4/2011, per cui “..a fronte di un’utilizzazione non attuata direttamente dagli organi rappresentativi dell’ente, ma da questi sostanzialmente assentita, il giudice può ritenere riconosciuta, di fatto, l’utilità dell’opera o della prestazione, conseguentemente formulando, in via sostitutiva, il relativo giudizio, con adeguata e congrua motivazione..”);
- può avere natura atipica (cfr. Cass., n. 12608 del 19/5/2017 e n. 16820 del 5/7/2013, secondo cui: “..ai fini dell’”utile versum” dell’azione di arricchimento senza causa, proposta ai sensi dell’art. 2041 c.c., nei confronti della P.A., non rileva l’utilità che l’ente confidava di realizzare, bensì quella che ha in effetti conseguito e che, quando la prestazione eseguita in suo favore sia di carattere professionale, quale la redazione del progetto di un’opera pubblica, può consistere anche nell’avere evitato un esborso o una diversa diminuzione patrimoniale cui, invece, sarebbe stato necessario far fronte ove fosse mancata la possibilità di disporre del risultato della prestazione medesima”).
Dall’analisi delle citate sentenze, dunque, emerge come sia ormai consolidato il principio di diritto per cui: “il riconoscimento dell’utilitas da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, pertanto il depauperato che agisce nei confronti della P.A., ex art. 2041 c.c., ha il solo obbligo di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’Amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa piuttosto eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto e non fu consapevole”.
Dott. Salvatore Cosentino
L'indebito arricchimento della PA e l'indennizzo al professionista
Propedeutico all’esatto inquadramento della questione giuridica in esame, è un breve excursus dell’istituto.
L’azione di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. nei confronti della P.A., è stata ab origine condizionata dal riconoscimento, in capo alla P.A., di una discrezionalità sull’utilità dell’opera o della prestazione; tale ultimo requisito, peraltro, era considerato necessario presupposto per la configurazione dell’elemento oggettivo dell’arricchimento.
Proprio in ragione della citata discrezionalità, si è dunque riconosciuto un limite al sindacato del giudice ordinario, di fatto impossibilitato a sindacare un provvedimento amministrativo.
In applicazione di tale principio, onde esperire l’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della P.A., la giurisprudenza tradizionale richiedeva un provvedimento formale di espresso riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione.
Tale impostazione, tuttavia, è stata oggetto di numerose critiche da parte della dottrina più accorta, la quale ha sottolineato che il riconoscimento dell’utilità dell’opera rappresenta un requisito di cui l’art. 2041 c.c. non fa alcuna menzione.
A supporto delle attente critiche opposte dalla dottrina a tale impostazione ermeneutica, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza n. 10798/2015, hanno fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’istituto in esame, accedendo alla tesi dell’arricchimento come presupposto di mero fatto di carattere oggettivo, suscettibile di accertamento da parte del G.O. anche in assenza di una manifestazione di volontà o di giudizio da parte della P.A.
In particolare, gli Ermellini hanno sottolineato come l’impostazione restrittiva che richiedeva – ai fini dell’operatività della norma di cui all’art. 2041 c.c. – il provvedimento formale di accertamento dell’utilità dell’opera da parte della PA., si poneva in netto contrasto con l’art. 24 della Costituzione, inerente il diritto di azione.
Ancora, i Giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato che una tale interpretazione finiva per svilire il ruolo stesso del giudice che, così ragionando, avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della decisione della P.A., contraddicendo la funzione stessa del processo.
Sulla base di ciò, la Suprema Corte è giunta a concludere che il riconoscimento provvedimentale dell’utilità da parte della P.A. non può rappresentare un ulteriore elemento della fattispecie di arricchimento ingiustificato ex art. 2041 c.c., potendo – al più – assumere rilevanza solo sul piano probatorio, ossia sul piano dell’imputabilità dell’arricchimento ad un determinato ente.
Con specifico riguardo alla quantificazione dell’indennizzo a fronte di prestazioni di fare che siano riconducibili a contratti d’opera manuale o professionale, poi, l’azione di arricchimento senza causa nei confronti della P.A. ha posto ulteriori problemi.
In particolare, la questione attiene all’estensione dell’indennizzo al lucro cessante nelle ipotesi di nullità dei contratti stipulati con la P.A. aventi ad oggetto prestazioni professionali.
Sul punto, gli Ermellini, nella loro composizione più autorevole, con sentenza del 2008 hanno riconosciuto al professionista il diritto ad ottenere l’indennizzo pari alle spese affrontate per le opere richieste, escludendo nella definizione del quantum il lucro cessante; ciò, in quanto: in primis si sottolinea come l’art. 2041 c.c. sia estraneo alla logica riparatoria propria, invece, del risarcimento del danno; in secundis, la Corte ha evidenziato come l’estensione dell’indennizzo anche al lucro cessante, finirebbe per svilire la sanzione di nullità del contratto posto in essere in violazione di norme inderogabili.
Ciò chiarito, fondamentale risulta comunque l’intervento delle Sezioni Unite del 2015 che, come sopra evidenziato, ha categoricamente escluso che il riconoscimento dell’utilità dell’opera sia essenziale ai fini dell’esperimento dell’azione di ingiustificato arricchimento.
Nel solco di tale pronuncia, con la sentenza numero 15937 del 27/6/2017, gli Ermellini hanno successivamente ribadito che “…il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c., nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso; tuttavia, le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della P.A. trovano adeguata tutela nel principio di diritto comune del cd. “arricchimento imposto”, potendo, invece, l’Amministrazione eccepire e provare che l’indennizzo non è dovuto laddove l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento ovvero non ha potuto rifiutarlo perché inconsapevole dell’eventum utilitatis…”).
Ancora più recentemente, la III Sezione della Suprema Corte, con sentenza n. 16793 del 26 giugno 2018, ha ritenuto di dover dare continuità a tale consolidato orientamento, ribadendo che il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito, non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, in quanto il depauperato ha esclusivamente l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso.
In tale occasione, il Supremo Consesso, ha altresì precisato che l’utilitas per la P.A.:
- può consistere anche in un risparmio di spesa (cfr. Cass., n. 9141 del 21/4/2011, per cui “..a fronte di un’utilizzazione non attuata direttamente dagli organi rappresentativi dell’ente, ma da questi sostanzialmente assentita, il giudice può ritenere riconosciuta, di fatto, l’utilità dell’opera o della prestazione, conseguentemente formulando, in via sostitutiva, il relativo giudizio, con adeguata e congrua motivazione..”);
- può avere natura atipica (cfr. Cass., n. 12608 del 19/5/2017 e n. 16820 del 5/7/2013, secondo cui: “..ai fini dell’”utile versum” dell’azione di arricchimento senza causa, proposta ai sensi dell’art. 2041 c.c., nei confronti della P.A., non rileva l’utilità che l’ente confidava di realizzare, bensì quella che ha in effetti conseguito e che, quando la prestazione eseguita in suo favore sia di carattere professionale, quale la redazione del progetto di un’opera pubblica, può consistere anche nell’avere evitato un esborso o una diversa diminuzione patrimoniale cui, invece, sarebbe stato necessario far fronte ove fosse mancata la possibilità di disporre del risultato della prestazione medesima”).
Dall’analisi delle citate sentenze, dunque, emerge come sia ormai consolidato il principio di diritto per cui: “il riconoscimento dell’utilitas da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, pertanto il depauperato che agisce nei confronti della P.A., ex art. 2041 c.c., ha il solo obbligo di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’Amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa piuttosto eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto e non fu consapevole”.
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