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Giudice indotto in errore, esclusa la truffa
Con la sentenza n. 55430/2018 la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della configurabilità del reato di truffa nel caso in cui il soggetto indotto in errore sia un magistrato e il danno patrimoniale sia conseguenza di un provvedimento, emesso nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
A seguito dell’emissione, da parte di alcuni magistrati indotti in errore, di decreti ingiuntivi a favore degli imputati, la Corte d’Appello di Brescia aveva confermato la condanna per concorso in truffa aggravata ex artt. 110, 56 e 640 c. p. pronunciata dal Tribunale di Bergamo. Nel caso di specie, due parenti avevano chiesto ed ottenuto una serie di decreti ingiuntivi, risultati essere illegittimi, perché frutto di false rappresentazioni effettuate dai due in occasione delle varie domande giudiziali. Contro la sentenza d’Appello i soccombenti proponevano ricorso in Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata, in quanto secondo i ricorrenti le condotte incriminate non sarebbero riconducibili allo schema del reato di truffa ex art. 640 c.p. bensì a quello penalmente irrilevante della c. d. “truffa processuale”.
Gli Ermellini, ribadendo un principio di diritto più volte affermato, hanno precisato che in tema di truffa, pur non esigendosi l’identità fra la persona indotta in errore e quella che subisce conseguenze patrimoniali negative, va esclusa la configurabilità del reato nel caso in cui il soggetto indotto in errore, mediante raggiri o artifizi, sia un giudice che, sulla base di una testimonianza falsa, abbia adottato un provvedimento giudiziale contenente una disposizione patrimoniale favorevole all’imputato. Quest’ultimo infatti, essendo espressione di potere giurisdizionale, non è equiparabile ad un atto negoziale, dovendosi intendere come atto di natura pubblicistica (si veda in tal senso Cass. pen., II Sez., 29929/2017 ove si afferma che raggiri e artifizi di cui sia vittima il giudice rilevano penalmente solo nei casi tassativamente indicati dall’art. 374 c. p., alla luce del divieto di analogia in malam partem del diritto penale), il reato pertanto non si integra per difetto dell’elemento costitutivo dell’atto di disposizione patrimoniale.
La Suprema Corte dichiara di non ignorare l’indirizzo espresso delle Sezioni Unite, secondo cui è sufficiente, ai fini della sussistenza del reato, l’idoneità dell’atto a produrre un danno, ben potendo lo stesso qualificarsi come atto negoziale, atto giuridico in senso stretto ovvero un permesso o assenso, mera tolleranza o una traditio, fatto omissivo o atto materiale. In linea teorica quindi non si potrebbe escludere che tale atto volontario consista nella dazione di denaro effettuata nella erronea convinzione di dover eseguire un ordine imposto dal giudice. Va però osservato che il predetto principio veniva pronunciato in riferimento ad un giudizio che si caratterizzava per la particolarità che, l’induzione in errore proveniva di un appartenente all’ordine giudiziario, in concorso con un avvocato, attraverso l’emanazione di provvedimenti giurisdizionali che erano essi stessi lo strumento fraudolento, ipotesi questa che non ricorre nel caso in esame.
Per tali motivi la Corte accoglieva il ricorso, annullando la sentenza impugnata perché il fatto non sussisteva.
Dott.ssa Marta Mazzone
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