Contratti a termine: la sentenza della Cassazione
La Corte di Cassazione, sez. VI Civile con sentenza n. 25117 depositata il 24 ottobre 2017 si è pronunciata in merito alla reiterazione dei contratti a termine.
Nel caso di specie, il Tribunale ha dichiarato illegittimi i termini apposti ai contratti di lavoro stipulati dall’Azienda sanitaria provinciale di Trapani con una lavoratrice, condannando la prima al risarcimento del danno in favore della seconda.
Tuttavia, la Corte d’Appello ha successivamente ribaltato la decisione del Giudice di prime cure rigettando la domanda risarcitoria avanzata dalla lavoratrice poiché la stessa era priva della prova del danno subito ex art. 36 T.U. n. 165/2001 (secondo cui: “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave”).
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha richiamato sul punto la sentenza n. 5072 del 15/03/2016 con la quale le Sezioni Unite hanno stabilito che “in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE, sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.”
In tale ottica, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il danno subito dal dipendente pubblico è diverso da quello subito dal lavoratore privato: infatti il lavoratore a termine nel pubblico impiego, se il termine è illegittimamente apposto, diversamente dal lavoratore privato, non può ottenere la conversione del rapporto a tempo indeterminato, perdendo la chance di un’occupazione alternativa migliore.
Le Sezioni Unite, pertanto, compatibilmente con le indicazioni della Corte di giustizia europea al riguardo, hanno cercato di individuare una misura per il caso di abusivo ricorso ai contratti a termine nel pubblico impiego che rafforzasse la tutela del lavoratore pubblico e che fosse altresì dissuasiva, proporzionata ed equivalente rispetto a quelle previste dal nostro ordinamento per gli stessi casi.
Tale misura è stata individuata proprio nella facilitazione dell’onere probatorio di cui all’art. 32, comma 5, L. n. 183/2010 (secondo cui: “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604) che pertanto permette al dipendente pubblico di provare che le possibilità di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine stipulati in violazione di legge si traducono in un danno patrimoniale più elevato.
La Suprema Corte, stante la citata sentenza chiarificatrice delle Sezioni Unite, ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore cassando e rinviando la sentenza impugnata alla Corte d’appello di Catania.
Dott.ssa Carmen Giovannini
Contratti a termine: la sentenza della Cassazione
La Corte di Cassazione, sez. VI Civile con sentenza n. 25117 depositata il 24 ottobre 2017 si è pronunciata in merito alla reiterazione dei contratti a termine.
Nel caso di specie, il Tribunale ha dichiarato illegittimi i termini apposti ai contratti di lavoro stipulati dall’Azienda sanitaria provinciale di Trapani con una lavoratrice, condannando la prima al risarcimento del danno in favore della seconda.
Tuttavia, la Corte d’Appello ha successivamente ribaltato la decisione del Giudice di prime cure rigettando la domanda risarcitoria avanzata dalla lavoratrice poiché la stessa era priva della prova del danno subito ex art. 36 T.U. n. 165/2001 (secondo cui: “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave”).
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha richiamato sul punto la sentenza n. 5072 del 15/03/2016 con la quale le Sezioni Unite hanno stabilito che “in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE, sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.”
In tale ottica, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il danno subito dal dipendente pubblico è diverso da quello subito dal lavoratore privato: infatti il lavoratore a termine nel pubblico impiego, se il termine è illegittimamente apposto, diversamente dal lavoratore privato, non può ottenere la conversione del rapporto a tempo indeterminato, perdendo la chance di un’occupazione alternativa migliore.
Le Sezioni Unite, pertanto, compatibilmente con le indicazioni della Corte di giustizia europea al riguardo, hanno cercato di individuare una misura per il caso di abusivo ricorso ai contratti a termine nel pubblico impiego che rafforzasse la tutela del lavoratore pubblico e che fosse altresì dissuasiva, proporzionata ed equivalente rispetto a quelle previste dal nostro ordinamento per gli stessi casi.
Tale misura è stata individuata proprio nella facilitazione dell’onere probatorio di cui all’art. 32, comma 5, L. n. 183/2010 (secondo cui: “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604) che pertanto permette al dipendente pubblico di provare che le possibilità di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine stipulati in violazione di legge si traducono in un danno patrimoniale più elevato.
La Suprema Corte, stante la citata sentenza chiarificatrice delle Sezioni Unite, ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore cassando e rinviando la sentenza impugnata alla Corte d’appello di Catania.
Dott.ssa Carmen Giovannini
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