Niente abuso d'ufficio se viene comunque perseguito il pubblico interesse
“In tema di abuso di ufficio, la prova dell’intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell’imputato fosse orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento “non iure” osservato dall’agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva “ratio” ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento e il tenore dei rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno“.
È quanto stabilito dai Magistrati del Palazzaccio della VI sezione penale con sentenza n. 46788/2017, mediante la quale è stato accolto il ricorso e cassato con rinvio quanto già deciso, nel caso de quo, la Corte d’appello.
Nel caso di specie la Corte afferma che si debba motivare sulla intenzionalità favoritrice rispetto ad una condotta tenuta da un carabiniere che, nel corso di un occasionale controllo su strada, ometteva di sanzionare il proprietario di un veicolo, con il quale non aveva alcuna relazione, che procedeva senza assicurazione.
Tuattavia la pronuncia deriva dalla decisione della Corte d’Appello di Potenza, che ha riconosciuto colpevole di reato di cui all’art. 323 cod. penale (abuso d’ufficio).
Al comandante della stazione dei carabinieri veniva contestato che, nell’esercizio delle sue funzioni, violando quanto prescritto dall’art. 193 del c.d.s., ometteva di sanzionare il proprietario dell’autovettura e procedere al sequestro amministrativo, procurando così al proprietario un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso alla Suprema Corte l’imputato, a mezzo del difensore, indicando due motivi di rimostranza. Con il primo deduce mancanza di motivazione in relazione all’elemento psicologico del reato, con il secondo argomenta le violazioni degli artt. 62 bis, 132 e 133 cod. penale essendo non concesse le attenuanti.
Gli ermellini, difatti, con la sentenza suindicata, hanno ritenuto fondati i motivi e pertanto hanno accolto il ricorso.
Precisano i Giudici di legittimità che “nel delitto di abuso d’ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è richiesto che l’evento costituito dall’ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall’agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi la sussistenza del dolo, sotto il profilo dell’intenzionalità, qualora risulti che l’agente si sia proposto il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio” (Corte di Cassaz. sent. n.18149/2005).
Sulla scorta di tali considerazioni i Magistrati della Cassazione hanno dunque annullato la sentenza del giudice di merito e rinviato per un nuovo giudizio alla Corte di appello di Salerno.
Dott. Vincenzo Di Capua
Niente abuso d'ufficio se viene comunque perseguito il pubblico interesse
“In tema di abuso di ufficio, la prova dell’intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell’imputato fosse orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento “non iure” osservato dall’agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva “ratio” ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento e il tenore dei rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno“.
È quanto stabilito dai Magistrati del Palazzaccio della VI sezione penale con sentenza n. 46788/2017, mediante la quale è stato accolto il ricorso e cassato con rinvio quanto già deciso, nel caso de quo, la Corte d’appello.
Nel caso di specie la Corte afferma che si debba motivare sulla intenzionalità favoritrice rispetto ad una condotta tenuta da un carabiniere che, nel corso di un occasionale controllo su strada, ometteva di sanzionare il proprietario di un veicolo, con il quale non aveva alcuna relazione, che procedeva senza assicurazione.
Tuattavia la pronuncia deriva dalla decisione della Corte d’Appello di Potenza, che ha riconosciuto colpevole di reato di cui all’art. 323 cod. penale (abuso d’ufficio).
Al comandante della stazione dei carabinieri veniva contestato che, nell’esercizio delle sue funzioni, violando quanto prescritto dall’art. 193 del c.d.s., ometteva di sanzionare il proprietario dell’autovettura e procedere al sequestro amministrativo, procurando così al proprietario un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso alla Suprema Corte l’imputato, a mezzo del difensore, indicando due motivi di rimostranza. Con il primo deduce mancanza di motivazione in relazione all’elemento psicologico del reato, con il secondo argomenta le violazioni degli artt. 62 bis, 132 e 133 cod. penale essendo non concesse le attenuanti.
Gli ermellini, difatti, con la sentenza suindicata, hanno ritenuto fondati i motivi e pertanto hanno accolto il ricorso.
Precisano i Giudici di legittimità che “nel delitto di abuso d’ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è richiesto che l’evento costituito dall’ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall’agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi la sussistenza del dolo, sotto il profilo dell’intenzionalità, qualora risulti che l’agente si sia proposto il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio” (Corte di Cassaz. sent. n.18149/2005).
Sulla scorta di tali considerazioni i Magistrati della Cassazione hanno dunque annullato la sentenza del giudice di merito e rinviato per un nuovo giudizio alla Corte di appello di Salerno.
Dott. Vincenzo Di Capua
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