Estorsione, ecco quando si configura il reato
La gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione diventano parametro per l’integrazione del reato di estorsione, questo è quanto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione con .
Il riscorso, contro la sentenza della Corte d’appello di Roma che ha confermato la condanna per il reato di estorsione, pur riconoscendo una riduzione della pena sulla base di circostanze attenuanti ritenute equivalenti alle circostanze aggravanti, si compone di due motivi: in riferimento al primo, il ricorrente deduce che la Corte d’appello ha erroneamente qualificato il fatto di reato come estorsione, riconoscendosi piuttosto la fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, avendo l’autore agito per ottenere il pagamento di un credito esistente; con riguardo al secondo motivo, il ricorrente argomenta che il secondo fatto di reato debba essere qualificato in termini di tentata truffa, non di estorsione, poiché la condotta di questo non era integrata da alcuna forma di violenza o minaccia.
Premesso che il delitto di estorsione è considerato un reato plurioffensivo poiché diretto a ledere sia la sfera patrimoniale che la sfera personale di libertà di autodeterminazione della persona offesa e si caratterizza per il contestuale conseguimento di un ingiusto profitto, per se o per altri, e di un effettivo danno della persona offesa, la Cassazione, nell’esaminare il ricorso, ha evidenziato un contrasto giurisprudenziale in tema di distinzione tra il reato stesso di estorsione e la fattispecie, meno grave, di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Un primo orientamento riconosce nell’elemento intenzionale il fondamento di tale differenziazione, tale per cui unicamente la realizzazione di un’azione diretta ad attuare una pretesa, che non sia suscettibile di tutela giudiziaria, può essere qualificata in termini di estorsione.
La contrapposta posizione, comprovata dalla Cassazione stessa, pone in risalto, in aggiunta all’elemento intenzionale, il grado di gravità della condotta violenta e l’intensità dell’intimidazione: con specifico riferimento all’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla pretesa dell’autore del reato di far valere un proprio diritto, salvo il caso in cui, consistendo questa in una forza intimidatoria sproporzionata rispetto al ragionevole intento di far valere il preteso diritto, lo scopo sarà piuttosto il conseguimento di un ingiusto profitto e la condotta stessa sarà quindi considerata puramente estorsiva. Poiché, nel caso di specie, l’imputato ha coinvolto terzi per costringere, con violenza o minaccia, il debitore a pagare, la Cassazione ha riconosciuto, al pari delle precedenti decisioni, il reato di estorsione sottolineando l’ingiustizia di un profitto che derivi da un’azione intimidatoria.
Con riferimento al secondo motivo, la sostanziale differenza tra il reato di truffa e quello di estorsione si individua nel tipo di condotta lesiva e della relativa incidenza nella sfera soggettiva della persona offesa. Si ha truffa quando alla condotta minacciosa segue un male possibile ed eventuale e non direttamente o indirettamente, per mezzo di altri, inflitto dall’agente; al contrario si integra il reato di estorsione se il male è considerato come certo e realizzabile ad opera dell’autore o di terzi, costringendo così la vittima a scegliere tra la possibilità di subire il male paventato o far realizzare l’ingiusto profitto all’agente. Nel caso di specie, dato che la seconda richiesta di pagamento è avvenuta pochi giorni dopo la prima estorsione e che da ciò consegue inevitabilmente uno stato di soggezione della vittima, che impedisce di sottrarsi all’ulteriore pagamento della somma da pagare, la Cassazione ha ritenuto che si trattasse, come precedentemente statuito dalla Corte d’appello, del delitto estorsione; ha quindi rigettato il ricorso.
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